Giorgio La Pira nasce a Pozzallo, nel sud della Sicilia, il 9 gennaio 1904; a dieci anni va dallo zio Luigi Occhipinti a Messina, per proseguire gli studi . Lo zio gestisce un commercio di vini, tabacchi e liquori di cui Giorgio diviene collaboratore; massone e anticlericale, non vuole neanche vederlo parlare con i preti. La sua formazione giovanile si compie nella Messina del terremoto; fa parte di un gruppo di giovani che respirano a pieni polmoni l’aria che circola. Rifiutano l’Italia di Giolitti giudicata troppo umile e rassegnata, si entusiasmano per D’Annunzio e Marinetti perché incarnano la ribellione, l’anticonformismo; ma, allo stesso tempo, leggono moltissimo e si avvicinano ad altre esperienze. Del gruppo fa parte Salvatore Quasimodo, futuro premio Nobel per la letteratura: il carteggio tra La Pira e Quasimodo è un dialogo spirituale altissimo.
Giorgio La Pira è stato un politico e docente italiano, Sindaco di Firenze, terziario domenicano e francescano, appartenente all’istituto secolare dei Missionari della regalità di Cristo. La Chiesa cattolica lo ha proclamato servo di Dio.
Lineare al pensiero di Tommaso d’Aquino, Giorgio La Pira ha rappresentato il politico pensatore, il cattolico in politica da cui prendere esempio, capace di proiettare nel suo presente una luce antica, assimilando e applicando, non senza genialità le questioni dell’epoca e, al contempo, indicando una linea direttiva, incisiva ed efficace, al modus operandi nella politica dell’azione, esclusivamente legata al bene della persona.
Analizzando il cuore del pregevole operato di La Pira, molto ampio e vasto, si evidenziano linee fondamentali del suo pensiero, da cui trarre spunti per l’attualità della politica, soprattutto della politica cattolica, che anela figure, sempre più rare, capaci di ottemperare in forma pura e fedele al bonum facere.
L’innesto di La Pira nella vite tomista fu fondamentale, ma vi furono altri innesti che ebbero influssi su di lui: il beato Contardo Ferrini, Dante Alighieri, Vito Fornari, Jacques Maritain, come anche Federico Ozanam e Maurice Blondel. La Pira è stato un grande educatore, cercava il dialogo con tutti, anche con chi la pensava diversamente dal lui, e il suo linguaggio è sempre stato di rispetto verso la persona oltre che di costrutto. Desiderava dare agli uomini il senso della dignità e della loro responsabilità, ha cercato una cultura diversa “che sia insieme elementare e sublime, che sappia parlare ai bambini e ai saggi, che abbia il gusto delle cose di ogni giorno senza togliere lo sguardo dalle vette incantate della contemplazione e dell’amore” .
Nell’Aquinate La Pira riesce a cogliere il cristianesimo come energia che lievita, che fermenta la storia: la dottrina della persona e della società, del diritto e della legge, del bene comune, della proprietà, del fine della società e dello Stato. Scriverà La Pira in Cultura Cristiana: “L’attività teoretica è veramente un quod divinum, come dice San Tommaso: è il fiore e il frutto supremo dell’uomo; inizia in terra quell’attività somma che eserciteremo per sempre in Cielo”.
La Pira è un uomo di grande speranza, teologale e umana. Il suo ottimismo trova fonte nella convinzione che la grazia, che scaturisce dal Cristo risorto e dallo Spirito Santo, non è separata dalla natura, ma vi s’innesta per lievitarla. Sotto la sollecitazione della grazia, la natura umana si apre, è fecondata e quindi fiorisce in azioni e livelli che senza la grazia non avrebbe conosciuto. Gratia non tollit naturam sed eam perficit .
La Pira vede nella grazia una funzione sociale e un potente fermento della storia, per questo elabora una severa diagnosi sulla civiltà borghese moderna, frutto della dissociazione della sintesi cristiana: l’età borghese ha spezzato la solidarietà organica tra natura e grazia, ponendole come realtà separate, quando non contrapposte. Asserisce Tommaso d’Aquino: la speranza tendendo al bene sperato, è accesa dall’amore: non vi è, infatti, speranza se non di un bene desiderato e amato. L’oggetto della speranza, sia essa naturale o teologale, è un bene futuro arduo ma possibile da raggiungere.
In La Pira, la speranza autentica muove verso l’avvenire operando una selezione della memoria; in essa perennemente verdeggia questa precisa forma di purificazione della memoria, in virtù della quale il soggetto dimentica sofferenze e delusioni per, nuovamente, correre verso l’oggetto sperato. La Pira fece della speranza una guida autentica per l’azione politica. Nel suo intervento al V Congresso Nazionale della DC, 1974, disse: “Qual è il compito di un partito dirigente d’ispirazione democratica e cristiana? Intuire l’immenso valore religioso etico e politico di questa speranza, eleggerla come meta orientatrice della nostra azione e, infine, decisamente pilotarla perché essa si traduca in organismi economici, tecnici, sociali, culturali e politici atti a realizzarla”.
Egli individua tre fattori che hanno determinato la crisi della civiltà e che, a pensare bene, rispecchiano il presente del nostro sistema organico-politico cattolico: il crescente distacco dell’uomo dal cristianesimo e dalla Chiesa, realizzatosi prima nella separazione tra natura e grazia, in seguito nel rifiuto della seconda e, infine, consumatosi nell’approdo ateo; l’abbandono della disposizione contemplativa della vita e il rinchiudersi dell’uomo nell’azione volta a costruire un mondo secolarizzato; il decadimento del senso della dignità della persona umana.
L’ispirazione di La Pira, la sua necessità i dare risposte concrete alla politica, si rispecchia nel pensiero di Tommaso d’Aquino. Nella concezione tomista la politica è scientia civilis, e rientra nel dominio della filosofia pratica e quindi nel settore delle scienze morali, ossia delle scienze dell’agire. La politica possiede particolare dignità rispetto a tutte le altre scienze pratiche, poiché la polis è la realtà più importante di tutte quelle che l’uomo può costituire: tra tutte le scienze pratiche, la politica è principale e architettonica, in quanto riguarda il bene ultimo e perfetto nelle cose umane .
Tommaso considera la città Stato e lo Stato le perfette comunità naturali. Per l’Aquinate, fine dello Stato, e della politica, è la promozione della buona vita umana della moltitudine, il che richiede che lo Stato assicuri l’ordine contro i nemici interni ed esterni, garantisca la sicurezza del diritto, custodisca e promuova gli interessi materiali ed economici, ma soprattutto quelli morali e religiosi, tutto ordinando nei limiti del possibile allo sviluppo della vita secondo virtù della persona. È degno di nota il fatto che nella concezione politica tomista solo la virtù e il merito danno, di per se, diritto al potere. Inoltre, Tommaso rinnova l’elaborazione aristotelica della polis, prospettando una concezione altissima dello Stato come condizione e attuazione della vita perfetta: l’Aquinate segna così uno dei momenti più importanti della sua conciliazione tra pensiero greco e pensiero cristiano, basato su una delle fondamentali intuizioni del tomismo, ossia sull’armonia tra ragione e fede, tra valori naturali e grazia, e sull’idea che il peccato non ha distrutto ipsa principia naturae.
Egli, infatti, insegna che il peccato originale non ha completamente infettato l’uomo, che il mondo non è in balìa del male, né totalmente consegnato al maligno, che l’Incarnazione e la Redenzione lievitano positivamente la terra: l’uomo, il mondo e le strutture storiche sono risanabili. Il male non ha mai l’ultima parola, perché se esso abbonda, ancor più sovrabbonda il bene. Per il Dottore Angelico “homo naturaliter est animal politicum et sociale”, in modo che lo Stato affonda le sue radici nell’esperienza sociale dell’uomo. Concezione ben diversa da quella di Machiavelli, per il quale lo Stato è essenzialmente attività di scaltrezza, di forza della singola potente volontà del Principe; e dalle dottrine che fanno dello Stato il risultato di un contratto, in Hobbes, Rousseau.
La Pira fa suo l’insegnamento politico tomista. In lui la riflessione politica e l’azione sono strettamente connesse: per edificare la città dell’uomo con le misure della città di Dio, bisogna rigorosamente pensare la politica, bisogna ben pensare per ben agire: “la politica prima di essere una virtù pratica è una luce teoretica”. La Pira ritiene, sull’analisi delle concezioni politiche moderne di Hegel, Rosseau, Marx, che queste proposte politiche non possiedono vero bene comune, ma o un bene collettivo o un bene individualistico, perché sprezzano la sostanzialità della persona e ostacolano il raggiungimento del fine ultimo dell’esistenza umana. Il suo pensiero evidenzia come il fine della società e dello Stato non si riduce alla garanzia del diritto del singolo: le formule tomiste vanno oltre e individuano nella felicità sociale, ovverosia pace, unità, sufficienza di beni, vita virtuosa, il vero fine dello Stato.
Assistiamo pertanto a un modello di Stato, di Tommaso d’Aquino fatto proprio da La Pira, che non è né uno Stato di diritto, che si limita a garantire un certo numero di diritti dell’individuo, né uno Stato etico, che attribuisce eticità solo a quanto emana dallo stato, piuttosto uno Stato sociale, organico, pluralista, personalista e comunitario. Al politico è richiesto di essere insieme uomo di pensiero e uomo di azione, interprete delle speranze degli uomini. Afferma La Pira durante una Conferenza tenuta alla Facoltà di architettura di Firenze nel 1960: “Tutti coloro che hanno una qualunque responsabilità politica o amministrativa devono meditare una data realizzazione per risolvere i problemi politici fondamentali. Altrimenti siamo dei direttori generali, non siamo dei filosofi”.
La Pira, ha radici in una distribuzione iniqua della ricchezza. Ricorda, altresì, che S. Tommaso considera perfetta quella comunità che permette ai suoi membri di avere a sufficienza ciò che è essenziale alla vita. La politica economica, dunque, deve essere finalizzata all’occupazione dei lavoratori, all’eliminazione della miseria, senza farsi troppo impressionare dalle leggi economiche. Sulla scorta di queste impostazioni, la politica economica propugnata da La Pira non è basata sul risparmio, ma sulla spesa per l’occupazione e per la produzione e, ne Le attese della povera gente, scriverà: “Il risparmio ha valore solo come strumento di spesa capace di creare nuova occupazione e, quindi, nuova produzione. Altra legittimità sociale esso non possiede: è una legge economica”. Egli, pertanto, rifiuta la concezione di lavoro come puro strumento di soddisfazione dei bisogni elementari di vita perché considera il lavoro un momento essenziale dell’espansione della persona e di attuazione della vocazione umana.
Il pensiero politico di Giorgio La Pira lascia intravedere orizzonti di vitalità, l’opera di La Pira, ricorda, altresì, S. Tommaso, che “la fede emotiva non è fede, le emozioni non sono il soggetto della fede, soggetto della fede è l’intelletto speculativo”. Prendendo spunto da questo concetto, si può pensare a un’analogia propositiva per l’arte del governo della cosa pubblica: la politica emotiva non è politica, l’emotività non è il soggetto della politica, soggetto della politica è l’intelletto speculativo che induce all’azione responsabile, capace sicuramente di emozionare ma nell’esercizio pratico della “carità intellettuale”, che pone al centro della sua azione la Persona. Formare, guidare, educare è, pertanto, un atto d’Amore, qual è stato l’impegno di Giorgio La Pira, un esercizio della “carità intellettuale”, che ha richiesto responsabilità, dedizione, coerenza di vita e che, nello stesso tempo, è divenuta bellezza dell’essere, chiara testimonianza edificante.
Il volume ripercorre tutta l’attività politica di Giorgio La Pira, rivelando alcuni retroscena delle elezioni politiche del 1976 e le divaricazioni strategiche che divisero La Pira dai cattocomunisti come Mario Gozzini e Raniero La Valle.
Giovanni Pallanti si occupa in queste pagine di un segmento fondamentale della vita umana e politica di La Pira e del rapporto che dal 1946 al 1977 il “Sindaco Santo” ebbe con la Democrazia Cristiana, una storia di libertà contro le ideologie totalitarie del XX secolo.
Il libro si interessa anche di altre due vicende storiche che hanno nel 2017 una particolare ricorrenza: il racconto che della Rivoluzione russa del 1917 fecero i comunisti italiani (centesimo anniversario); la parabola politica di Antonio Gramsci, morto isolato e sostanzialmente espulso dal PCI nel 1937 (ottantesimo anniversario).
Dal web
di Antonio Gentile