ANNI PIÙ BELLI DELLA NOSTRA VITA

Quello del significato della vita e nella vita della propria ragion d’essere, del fiore (Novalis 1997) cogliendo il quale potrebbe infine compiersi quanto ognuno di noi nell’attesa può solo presagire, è uno di quei problemi filosofici che, wittgensteiniamente, non possono essere posti senza rivelare la loro insensatezza.

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Occorre dunque astenersi dal farlo. Proprio questo divieto, che non ha impedito alla questione di impegnare fino ad oggi più di un cervello filosofico, rivela tuttavia,

separando nettamente il dicibile dall’indicibile, il peso etico-​valoriale, se non quello scientifico, che lo stesso Wittgenstein sarebbe disposto ad attribuire al problema.

Rivela inoltre la legittimità della questione – di quanto può almeno «mostrarsi», nella sua terminologia – su altri piani. Per il filosofo austriaco su quello del «Mistico», nel suo regale silenzio. Per altri, come Novalis nella grande letteratura tedesca o come Max Scheler, che sul tema della vocazione o missione riflette, sul piano della «salvezza» personale, della fioritura della propria esistenza. Chi godrà dell’immensa fortuna di raggiungere simili vette, potrà incontrare se stesso nel proprio mondo, e compiere, forse, un’autentica scoperta di sé. Sul piano inteso in questa seconda accezione la questione può assumere una connotazione metafisica o estetico-​artistica oppure spirituale. È questo infatti, secondo fonti attendibili, siano esse filosofiche o psicologiche, scheleriane, binswangeriane o anche seligmaniane, il regno della significatività per eccellenza. In un regno del genere, quando accade di abitarlo, in rari momenti della nostra esistenza, avvertiamo emotivamente la nostra vicinanza (a) o lontananza da noi stessi, da quell’«immagine ideale (Idealbild)» (Scheler 2013, 941) che, del nostro intero essere personale, potremmo un giorno guadagnare, magari in un incontro con altri che si riveli decisivo per la nostra rinascita morale. Potremmo guadagnarla, anche se mai in maniera definitiva, se potessimo estrarre «completamente, per così dire, dalla centrale comprensione (Verständnis)» della nostra «essenza individuale, le fondamentali mire intenzionali della» nostra «persona» (Scheler 2013, 941): le più importanti direzioni dell’intenzionalità quale proprietà della coscienza o presenza ad essa di oggetti prioritari in termini assiologici. Se chi riuscisse, in altre parole, a vederli meglio di noi stessi, potesse metterci davanti agli occhi i principali orientamenti dei nostri atti. Di quegli atti di preferire o amare, ad esempio, oppure odiare, che abbiamo diretto «significativamente» verso determinati oggetti dotati di determinati caratteri qualitativi, capaci di avere (o non avere) su di noi una determinata attrattiva, dei quali abbiamo avvertito la dignità o la superiorità, oppure la non dignità. Se potessimo estrarre, appunto, in virtù della piena comprensione che altri hanno del nostro centro personale, gli «oggetti» intenzionali che ci sono stati a cuore o che abbiamo maledetto, e riunirli «in una concreta immagine del» nostro «valore ideale intuitivamente data» (Scheler 2013, 941). È «a questa immagine» concreta, all’intero in cui ognuno di noi, per quanto imperfettamente, consiste, che una persona dallo sguardo non indifferente, né al nostro destino, né alla nostra destinazione, non estranea pertanto alla nostra unitaria «direzione di significato» – nel lessico anche binswangeriano –, potrebbe «commisurare le nostre azioni empiriche» (Scheler 2013, 941) e, sulla base dei contenuti dell’immagine, formulare eventualmente un giudizio, non diagnostico, ma «morale». Sarebbe una valutazione del nostro essere accessibile ad altri molto più profonda di quella che potrebbe darne in base a norme di validità universale o in base alle nostre attitudini mentali, una valutazione rispettosa, in ogni caso, della «sfera d’essere assolutamente intima» (Scheler 2013, 1083) che ogni singolo in quanto persona nondimeno possiede.

Autore Franco Capanna editorialista