di ANTONIO GENTILE
L’annuncio della triste notizia data 24 anni fa :”Somalia: uccisi due giornalisti italiani a Mogadiscio – Mogadiscio, nella giornata del 20 marzo – La giornalista del Tg3 Ilaria Alpi e il suo operatore, del quale non si conosce ancora il nome, sono stati uccisi oggi pomeriggio a Mogadiscio nord in circostanze non ancora chiarite.
Il Caso Alpi/Hovatin comincia così, con queste poche righe, ancora frammentarie, battute alle 14.43 del 20 marzo 1994 dall’agenzia ANSA sui terminali dei quotidiani e delle televisioni italiane. E con questa terribile vicenda comincia anche la battaglia solitaria, ma incessante, alla ricerca della verità, dei genitori di Ilaria Alpi, Luciana e Giorgio.
“Non cerco giustizia, voglio solo conoscere la verità”. Luciana Alpi non vede la fine della lunga battaglia iniziata 24 anni fa, ma non smetterà di continuare a trovare quella scomoda verità che lo stato italiano le nasconde.
Un altro mistero, un altro caso non risolto.
Chi , e soprattutto perché , hanno assassinato due giornalisti, inviati in una zona di guerra particolare come la Somalia diventata, da tempo ormai, un inestricabile crocevia di traffici illeciti ben nascosti dietro il paravento ipocrita della cooperazione internazionale?
Ilaria Alpi, giornalista del Tg3 ed il suo operatore, Miran Hrovatin, in Somalia al seguito dell’operazione militare multinazionale, sotto egida ONU, Restor Hope, fortemente voluta dagli americani, stavano indagando proprio su questi oscuri traffici – armi e rifiuti tossici, in particolare – dentro i quali apparati politico-diplomatico-militari dello Stato italiano erano dentro fino al collo.
Eppure, da anni ed anni, questa verità, prima ancora di essere negata, continua ad essere ostacolata in tutti i modi, con ostinazione, grazie soprattutto all’utilizzo di uno strumento immutabile e fisso: i servizi segreti:
“Le deviazioni delle polizie segrete non sono un fenomeno accidentale, ma nascono contemporaneamente alle polizie segrete. La potenza di una polizia segreta fa sì che, da strumento in mano al Principe per perseguire gli scopi di sicurezza del regime, essa si trasformi in potere separato che persegue i propri scopi di sicurezza o, quanto meno, interpreta a suo modo la “sicurezza necessaria” al regime”.
Cosa c’era di tanto innominabile nelle scoperte giornalistiche che Ilaria e Miran avevano o stavano per fare? Che Paese era la Somalia del 1992-93? Ma soprattutto, cosa successe in quel maledetto giorno del 20 marzo 1994?
Mogadiscio, un commando di sette uomini ferma la jeep con a bordo Ilaria Alpi e Miran Hrovatin a pochi metri dall’Ambasciata italiana. Una raffica di kalashnikov toglie la vita ai due giornalisti del Tg3, in Somalia per seguire il ritorno in Italia del contingente italiano inviato in missione di pace nel Corno d’Africa. Ma Ilaria stava seguendo anche un’altra pista, un traffico di armi e rifiuti tossici che coinvolgeva sia i signori della guerra locali sia delle navi provenienti dall’Italia. Non appena quest’ipotesi acquista peso, però, compaiono sulla scena alcuni discutibili pentiti che dirottano le indagini sulla Basilicata, in particolare sul piccolo centro di Rotondella (Matera), dove si trova un centro di ricerche nucleari dell’Enea. Si rivelano essere dei depistaggi. E c’è da chiedersi: perché qualcuno si è scomodato per portare la magistratura su false piste?
La Commissione parlamentare d’inchiesta affermò di avere ritrovato l’automobile sulla quale si trovavano i due giornalisti al momento dell’agguato, una Toyota, sulla quale erano presenti fori di proiettile e macchie di sangue. Ma quando venne esaminato il DNA del sangue, si scoprì che non apparteneva ai giornalisti. E forse avevano scoperto qualcosa che non dovevano scoprire. I corpi dei due giornalisti vengono riportati in Italia. Ma nel viaggio di ritorno succede qualcosa: i sigilli dei bagagli vengono aperti, spariscono gli appunti di Ilaria e i nastri di Miran.
Luglio 1999, uno dei presunti assassini Omar Hassan Hashi viene assolto dal Tribunale di Roma. I giudici considerano poco attendibili le testimonianze dell’autista di Ilaria e Miran, Sid Abdi, e quella di Gelle. Nelle motivazioni, i giudici scrivono che Gelle ha cambiato versione più volte ed è sparito prima di poter testimoniare al processo. Inoltre l’altro testimone chiave, Sid Abdi, dichiara di non aver visto Gelle tra le persone presenti il giorno dell’assassinio. Più credibili i tre somali che si sono presentati davanti ai giudici confermando l’alibi di Hashi: il 20 marzo 1994 non si trovava a Mogadiscio, ma ad Adale, a 200km dalla capitale.
Nelle motivazioni della sentenza, i giudici perugini parlano chiaramente di “attività di depistaggio” che hanno portato alla condanna di un innocente. La procura di Roma ha aperto dunque un nuovo fascicolo, ma il 4 luglio 2017 ne ha chiesta l’archiviazione: “Dopo 24 anni è impossibile accertare killer e movente, scrive nella richiesta il pubblico ministero Elisabetta Ceniccola e non c’è nessuna prova di depistaggi.
Il caso Alpi – Hrovatin come un puzzle incompleto, ma anche come punto di coagulo di molte delle storie più oscure del nostro Paese.
ANTONIO GENTILE – FROSINONE