Una vera e propria festa in Piazza Montecitorio, con tanto di palloncini gialli e champagne, organizzata dai militanti del Movimento Cinque Stelle, ha salutato ieri pomeriggio l’approvazione della delibera per il taglio dei vitalizi agli ex deputati, presentata dal presidente della Camera Roberto Fico. Nel testo, anche il ricalcolo delle pensioni. La delibera entrerà in vigore dal 1° gennaio 2019. In precedenza, l’entrata in vigore era stata prevista per il 1° novembre di quest’anno.
E’ ufficiale: i vitalizi degli ex deputati sono stati aboliti. L’ufficio di presidenza della Camera ha dato il via libera alla delibera che ricalcolerà gli assegni percepiti in base al metodo contributivo. Entusiasta Luigi Di Maio su Facebook: «abbiamo abolito i vitalizi agli ex parlamentari della Repubblica. Questa è una cosa che per 5-6 anni ci hanno detto che non si poteva fare e alla fine si poteva fare e abbiamo tolto questa ingiustizia. D’ora in poi i parlamentari che hanno versato i contributi per 3 anni in parlamento prenderanno quei contributi nella pensione se l’avranno raggiunta, come funziona per tutti i cittadini italiani. E’ una bellissima notizia perché significa che i privilegi si possono tagliare, non era mai accaduto prima. Adesso questo odioso privilegio finalmente scompare. E da qui si parte per poi mettere mano alle pensioni d’oro». Di Maio conclude dicendo che la delibera è stata votata da tutti a parte due astenuti e che si risparmierà circa 200 milionidi euro a legislatura.
Ad essere interessati dai tagli, quei deputati che hanno percepito il vitalizio calcolato con il sistema contributivo. Al testo originale è stata apportata solo una modifica riguardante i casi di “non autosufficienza”,; la delibera è passata con i voti favorevoli della maggioranza, del Partito Democratico rappresentato da Ettore Rosato e di Fratelli d’Italia con Edmondo Cirielli e Fabio Rampelli. Forza Italia ha scelto l’astensione mentre Liberi e Uguali non ha partecipato al voto.
Francesco Silvestri, Capogruppo alla Camera per il M5S è sceso tra i militanti pentastellati in festa davanti Montecitorio ed ha dichiarato: “Stiamo cancellando un privilegio non un diritto e quando si fa qualcosa per le persone è giusto festeggiare”.
Parole di soddisfazione sono state espresse anche dal leader del Movimento Cinquestelle, Luigi Di Maio: “Oggi è una giornata storica e il prossimo passo sarà l’abolizione delle pensioni d’oro. Lo faremo presto, prestissimo”. Di Maio ha poi aggiunto: “Adesso il Senato prenda esempio: si è affermato il principio che i privilegi si possono togliere”, sottolineando che “questa vittoria la dedichiamo a tutti i cittadini penalizzati dalla legge Fornero”.
Anche il leader della Lega, Matteo Salvini non ha mancato di compiacersi per il risultato ottenuto. “Approvato in Parlamento il taglio dei vitalizi a 1.240 ex parlamentari: stop a vecchi e assurdi privilegi. Con la Lega, dalle parole ai fatti”, ha scritto sui social il Segretario leghista. Alle parole di Salvini hanno fatto eco quelle di Roberto Fico: “Io non mollo e non mollerò mai. Oggi abbiamo riparato un’ingiustizia sociale e quindi una ferita”.
Fico non pare essere preoccupato da quel che potrebbe esprimere la Consulta, a differenza del suo vice alla presidenza della Camera, il Dem Ettore Rosato. “Non sono preoccupato – ha affermato Fico -, so che la delibera che ho scritto è forte, sostanziale, sostanziosa, che ripara a delle ingiustizie. E quando ripari a delle ingiustizie per me c’è sempre la Costituzione come faro che dice che tutti i cittadini devono essere uguali. Per me questa delibera rende tutti i cittadini uguali e quindi costituzionalmente parlando credo proprio che sia costituzionale”.
Nel frattempo cominciano già ad arrivare le prime polemiche, Mara Carfagna su Twitter si è espressa così: «magari Bye Bye Vitalizi! Sarebbe splendido. Peccato che ora arriverà una pioggia di ricorsi e a pagare saranno i cittadini. Forza Italia ha cancellato i vitalizi nel 2011, oggi è favorevole al ricalcolo di quelli vecchi. La proposta del M5S però è solo propaganda, un boomerang». Anche Maria Stella Gelmini è d’accordo: «non risponde ai criteri di legittimità costituzionale ed è certamente destinata, in questa formulazione, a essere impugnata e annullata dagli organi giurisdizionali».
Il fatto è che i contributi versati non ci sono, perché la regola prevedeva soltanto la ritenuta della quota a carico del parlamentare, mentre il vitalizio era erogato, al momento della sua maturazione, dall’amministrazione della Camera, la quale non era tenuta pertanto ad accantonare la quota spettante al datore di lavoro.
Nulla di strano: anche le amministrazioni statali si comportavano, in base alla legge, con le medesime regole nei confronti dei loro dipendenti fino al 1996, quando venne istituita una vera e propria gestione previdenziale presso l’Inpdap. Così, adesso, un montante contributivo – virtuale – occorre crearlo a tavolino, farlo nascere dal nulla. Ma c’è di più. Nel sistema contributivo il montante va moltiplicato per il coefficiente di trasformazione ragguagliato all’attesa di vita vigente all’età del pensionamento. In seguito ad alcune modifiche intervenute dopo la riforma Dini del 1995 che introdusse i coefficienti, il range previsto per i comuni cittadini va da 57 a 70 anni. Nel caso degli ex deputati – con il supporto dell’Inps – ne sono stati creati degli altri, precedenti e posteriori a quella fascia di età. In tal modo, a un ex deputato, ora ottantenne, si applicherà il coefficiente ricostruito in ragione dell’età in cui ha iniziato a percepire il vitalizio, considerando l’attesa di vita a quel momento. In poche parole, anche l’aspettativa di vita diventa virtuale: al nostro ottantenne diranno che la sua è di venticinque anni, perché tale era all’età in cui si ritirò.
Infine, tutto questo ambaradan è giustificato dall’esigenza di trattare gli ex parlamentari (per ora solo gli ex deputati) come i normali cittadini-lavoratori. La verità è che questi ultimi, in misura pressoché totale, sono andati in quiescenza con il metodo retributivo, salvo un pezzo di “misto” per quelli che si sono ritirati dal 1° gennaio 2012 (quando è entrata in vigore la riforma Fornero). Le prime pensioni totalmente contributive ci saranno intorno al 2035. In conclusione, su poco più di un migliaio di ex deputati si applicherà un sistema destinato soltanto a loro.
Veniamo adesso alle pensioni d’oro. Innanzitutto è incerto il livello di caratura dell’oro: a Di Maio è venuto il dubbio che 5mila euro netti mensili siano troppi e si è messo a parlare all’incirca di 4-5mila euro. Ma c’è una salvaguardia: la corrispondenza con i contributi versati. Ci risiamo. Il sistema di calcolo deve cambiare natura. Nel 1969 venne pensato per assicurare – a torto o a ragione – un trattamento pensionistico equipollente al reddito realizzato nell’ultimo periodo di vita attiva (ecco la formula virtuosa a cui si è arrivati: 40 anni di lavoro x 2% di rendimento annuo = 80% della retribuzione media rivalutata degli ultimi 10 anni). Anche in questo caso, allora, un montante contributivo che abbracci tutta la vita non esiste, tanto che, per lunghi periodi, non sono reperibili neppure i dati (nell’Inps solo dal 1974, nello Stato dal 1996).
Certo il sistema retributivo (che con criteri più rigorosi dei nostri si applica nella grande maggioranza degli ordinamenti degli altri Paesi), ha in sé una rendita di posizione nel senso che tende a “premiare” il punto di arrivo di una carriera generalmente in crescita. Ma sono previsti dei correttivi che abbattono il rendimento sui redditi più elevati e considerano solo 40 anni di attività anche se ne sono lavorati di più. Sulle pensioni retributive, poi, nel corso degli anni, specie su quelle più elevate, sono intervenute misure di solidarietà o di manomissione ripetuta della rivalutazione in base al costo della vita. In sostanza, hanno già avuto modo di scontare in parte i loro peccati.
Ecco allora la domanda: che senso ha andare alla ricerca, a posteriori, di un corrispettivo tra contributi e prestazioni che non era un requisito richiesto dal sistema vigente? Non sarebbe più opportuno procedere – come ha suggerito Alberto Brambilla il plenipotenziario della Lega in tema di previdenza – con un contributo di solidarietà modulato per diversi livelli di trattamento? Evitando così di infilarsi in una ricostruzione arbitraria, comunque rischiosa sul piano della legittimità costituzionale, per alcune migliaia di assegni.
È vero, la Consulta ha messo in guardia i governi dal ripercorrere in modo continuativo interventi che si giustificano soltanto per la loro straordinarietà. Ma un contributo che riversasse il risparmio conseguito in miglioramenti per i redditi più bassi forse potrebbe avere una diversa accoglienza da parte dei giudici delle leggi. A proposito, contrariamente a quanto sostiene Luigi Di Maio – che dovrebbe studiare di più e parlare di meno a vanvera – non è vero che le classi politiche dei decenni trascorsi, ora sul banco degli imputati, non si siano occupate delle pensioni più basse. L’istituto dell’integrazione al minimo (dei trattamenti a calcolo che non arrivano a quella soglia garantita) previsto nel sistema retributivo, come forma di solidarietà infragenerazionale, costa alla fiscalità generale la bellezza di 21 miliardi all’anno. Altro che reddito di cittadinanza!
Ma come stanno davvero le cose? Per capire se effettivamente la “guerra del vitalizio” rischia di determinare la durata della legislatura occorre chiarire alcuni aspetti. Innanzitutto, il termine “vitalizio” è scorretto: a partire dal 2012, la rendita vitalizia concessa agli onorevoli al termine del mandato parlamentare e dopo il superamento di una certa soglia d’età è stata abolita e sostituita da una pensione calcolata con il metodo contributivo, basata cioè esclusivamente sui contributi versati (mediamente molto inferiore agli assegni pre-riforma). Per questo, ogni parlamentare versa mensilmente al Fondo pensioni di Camera e Senato un contributo pari all’8,8% della propria indennità parlamentare lorda (poco meno di 800 euro), che si sommano a quanto versano le Camere per ciascun eletto (poco meno di 1.500 euro mensili).
Ma andiamo a vedere quali sono i requisiti per l’accesso : Il diritto alla pensione dell’ex parlamentare scatta però non al termine della legislatura ma al compimento dei 65 anni di età e a condizione che abbia alle spalle almeno cinque anni di mandato parlamentare effettivo. In realtà, il minimo sono 4 anni sei mesi e un giorno da parlamentare, per evitare che la pensione salti in caso di “scioglimento tecnico” dei due rami prima dei 5 anni. Per ogni mandato oltre il quinto, il requisito anagrafico è diminuito di un anno fino al minimo inderogabile di 60 anni. Se si considera che la XVII legislatura è iniziata il 15 marzo 2013, la data da tener d’occhio è quindi quella del 15 settembre 2017. Uno scioglimento prima di questa data farebbe perdere infatti ai parlamentari il diritto alla pensione e tutti i contributi versati in questi anni (un tesoretto stimabile intorno ai 20 milioni di euro).
Allo stato attuale, le loro possibilità di rielezione sono legate al “gradimento” del leader. I parlamentari al primo mandato sono molti: 438 su 630 deputati (69,5%) e 191 su 315 senatori (60,6%). Dunque una larga maggioranza trasversale, che pesca soprattutto tra i due partiti maggiori. L’incidenza dei “nuovi” sugli eletti passa infatti dal 100% del Movimento 5 Stelle, sia alla Camera che al Senato, al 69,44% (Camera) e 62,83% (Senato) degli onorevoli dem. Da un lato, questi numeri confermano la presenza di una “maggioranza silenziosa” in Parlamento potenzialmente favorevole alle elezioni nel 2018. Dall’altro, la sostituzione del vitalizio con una pensione e il fatto che per molti parlamentari questa si concretizzerà solo tra molti anni conferma che quella di Renzi era una provocazione (o una bufala). Tutto, pur di andare alle urne entro l’estate.
Un deputato eletto nel 2013, quando aveva 27 anni, che cesserà il suo mandato nel 2018 senza essere riconfermato per il secondo, percepirà nel 2051 (a 65 anni) una pensione compresa tra i 900 e i 970 euro al mese […]. Se, invece, l’onorevole eletto sempre nel 2013 a 39 anni, sarà riconfermato fino al 2023, con due legislature alle spalle potrà andare in pensione nel 2034 (a 60 anni) incassando circa 1.500 euro al mese. Entrambe le simulazioni, ipotizzano che i contributi accantonati nell’arco della carriera parlamentare dai due ipotetici deputati siano gli unici versamenti effettuati nell’intera vita lavorativa.
Ma vediamoli questi assegni d’oro: Luciano Violante percepisce un vitalizio di 9.363 euro al mese, Giuliano Amato arriva a 31.411 euro al mese, Nichi Vendola pensionato d’oro all’età di 57 anni riceve dalla regione Puglia un assegno di 5.618 euro. Walter Veltroniogni mese incassa 5.373, Massimo D’Alema appena 90 euro in meno del suo storico rivale. Marco Pannella porta a casa una pensione invidiabile da 5.691 euro al mese. Con 35 anni di contributi versati e per la prima volta fuori dal Parlamento, dopo il declino della sua parabola nel centrodestra, percepisce il vitalizio anche l’ex presidente della Camera Gianfranco Fini (5.614 euro). Poi Prodi (2.864), Rodotà (4.684) e Franco Marini(5.800). Anche Irene Pivetti ha maturato un cospicuo vitalizio a seguito dei suoi 9 anni di mandato parlamentare, durante il quale ha occupato anche la carica di Presidente della Camera. Dal 2013, ovvero da quando aveva solo 50 anni, percepisce 6.203 euro al mese. Alfonso Pecoraro Scanio , deputato dal 1992 al 2008, riceve 8.836 euro al mese da quando aveva 49 anni. A Vittorio Sgarbi per essere rimasto in carica per 4 legislature riceve 8.455 euro. Ma c’è poco da indignarsi: è scritto nel Regolamento. Giancarlo Abeteè dal 1992 che non occupa i seggi parlamentari, ma da quando aveva 42 anni riceve 6.590 euro mensili. Rosa Russo Iervolino , parlamentare per oltre 20 anni e più volte Ministro, riceve mensilmente il suo assegno da circa 5400 euro netti. Alla cifra contribuisce anche il cumulo acquisito come sindaco di Napoli, dal 2001 al 2011. Pensionata a 41 anni e con un assegno di 8.455 euro, si può. È il caso di Claudia Lombardo , definita Miss Vitalizio d’oro. Eletta per la prima volta nel Consiglio Regionale della Sardegna quando aveva 21 anni e divenuta presidente nel 2009 con una carriera fulminea. Domenico Gramazio , passato alla storia parlamentare per aver festeggiato la caduta di Prodi nel 2008, mangiando in Senato una fetta di mortadella, percepisce 10.877 euro. Gianni De Michelis , percepisce 5.800 euro netti al mese. Insomma mi sembra veramente giusto che sia giunto il momento di dare un bel taglio a questo spreco, che non fa altro che raffigurare il “magna magna” generale che c’è stato in tutti questi anni passati.
dal web
di Antonio Gentile