Un ritorno al punto zero, a un Medioevo che le vuole nascoste agli occhi degli estranei e le relega tra le quattro mura domestiche. A più di 17 anni dall’inizio delle missioni statunitensi e Nato in Afghanistan, le donne della repubblica Islamica temono di essere derubate dei diritti che con tanta fatica e tanti rischi per la propria incolumità sono riuscite a conquistare dopo la caduta del governo Taliban.
Quell’intervento militare che diede inizio a violenze, rappresaglie e alla scia di attentati terroristici che ancora oggi insanguina il Paese aveva contribuito a strappare le donne alla prigione e all’oscurantismo imposti dalle bandiere bianche.
Oggi, con tanta fatica, oltre il 27 per cento dei seggi in Parlamento sono occupati da politici donne che sono anche a capo di ministeri, ambasciate, tra cui quella di Washington, e della Commissione indipendente dei Diritti Umani in Afghanistan. Il 25 per cento delle donne oggi è alfabetizzato, anche se con grandi disparità tra chi vive in città come Kabul o Herat e quelle delle aree rurali del Paese, mentre il 20 per cento ha un lavoro. Inoltre, l’aumento del 300 per cento delle ostetriche all’interno degli ospedali rispetto al 2003 ha portato sempre più madri a partorire in ospedale, facendo calare la mortalità materna da 1.600 decessi ogni 100mila gravidanze, nel 2002, a 396 nel 2015.
Risultati che un eventuale accordo tra Stati Uniti e Taliban, che legittimerebbe politicamente i turbanti afghani oggi influenti sul 45 per cento del territorio, rischia di cancellare. “Un’intesa del genere ci riporterebbe al punto di partenza, al 2001 – commenta Luca Lo Presti, presidente della fondazione Pangea Onlusche si occupa di emancipazione e sviluppo delle donne soprattutto attraverso il microcredito – Tutti gli sforzi compiuti per dare a queste donne un futuro, istruirle, inserirle nel mondo del lavoro dando loro la possibilità di crearsi una propria attività e per far capire alle loro famiglie e ai loro mariti che questo avrebbe rappresentato un bene anche per loro verrebbero vanificati in un attimo. Un accordo del genere non serve a costruire la pace”.
Lo sviluppo e l’emancipazione femminile sono processi che si costruiscono negli anni, non possono essere imposti alla popolazioni perché, come spiega Lo Presti, si tratta di stravolgimenti culturali a cui le vecchie e anche le nuove generazioni devono abituarsi. “Abbiamo iniziato con le donne – spiega – perché sono un ottimo moltiplicatore di consapevolezza. Per portare avanti il processo è stato necessario lavorare in parallelo con le famiglie e i mariti. Le ragazze, una volta ottenuto l’ok della famiglia, si sono mostrate entusiaste: le 25enni di oggi sono insofferenti perché recluse in casa con i loro padri che pianificano la loro vita. Questo sviluppo ha dato loro nuove prospettive”.
È stato proprio l’ostruzionismo culturale la principale difficoltà per le ong: hanno dovuto lottare contro le privazioni imposte dai Taliban, che oggi rappresentano lo Stato centrale in molte aree del paese e hanno ancora una forte influenza anche in alcuni quartieri della capitale, come il distretto 1. Non solo la paura di ritorsioni degli islamisti e di denunce dei propri vicini, ma anche lo stigma sociale e una cultura fortemente patriarcale sono stati i principali nemici del lavoro delle organizzazioni: “All’inizio – ricorda Lo Presti -, quando non ci respingevano gli uomini si atteggiavano da bulli. Ci ricattavano riguardo alla condizione delle proprie mogli e figlie se non ricevevano i finanziamenti per le loro attività, oppure si vantavano con il vicinato di fregarci dei soldi senza perdere il loro ruolo di capofamiglia autoritario. Noi siamo stati al gioco e col tempo hanno capito che una figlia che va a scuola, una moglie che lavora e contribuisce all’economia familiare erano un vantaggio anche per loro. Questa coscienza si è diffusa gradualmente nella popolazione e oggi in diverse zone del Paese non è più una vergogna se tua moglie gestisce un negozio di parrucchiere o tua figlia frequenta una scuola mista. Questo risultato è frutto anche del coraggio di padri e mariti che hanno creduto in questo cambiamento. Ma con i Taliban rischia di finire tutto in 10 minuti”.
I dati sulle donne lavoratrici sono incoraggianti nelle città come Kabul, dove Pangea opera, ma crollano man mano che ci si sposta verso le aree più periferiche. “I progetti di cooperazione non sono così numerosi – continua il presidente dell’associazione – perché è difficile avviare progetti umanitari nel Paese. Alcuni locali hanno avviato, ad esempio, delle scuole private, ma il livello è veramente scarso. Molto dipende, quindi, dalla presa di consapevolezza delle persone che iniziano a mandare le ragazze a scuola, nei piccoli istituti locali che hanno aperto alle classi miste. Ricordo sempre ciò che abbiamo fatto con un gruppo misto di ragazzi sordomuti. Abbiamo deciso di formare una squadra di calcio, ma per farlo dovevamo chiedere il permesso alle famiglie, soprattutto a quelle delle ragazze. Ci aspettavamo un grande ostruzionismo e invece sapete cosa ci hanno risposto? ‘Pagate voi le scarpe e l’attrezzatura? Allora va bene’”.
Con lo stesso meccanismo, Pangea e altre organizzazioni sono riuscite a far nascere e crescere attività guidate da donne: centri estetici, parrucchiere, panetterie, pelletterie, sartorie e altre attività artigianali sono comparse in questi 17 anni. “La storia a cui sono più legato è quella della nostra prima beneficiaria. Era una donna destinata alla morte: viveva sotto un telo, per strada, con due figli maschi e tre figlie femmine, senza marito. Le abbiamo insegnato a fare il pane e così ha potuto iniziare a lavorare. Oggi si è ingrandita: ha avviato la propria attività di catering, cucina anche per clienti internazionali e vive in una bellissima casa. È questo che si deve fare: innescare processi a lungo termine”.
La lenta emancipazione delle donne nel contesto sociale afghano ha anche contribuito a compiere i primi passi per combattere un altro fenomeno radicato nel Paese: la violenza tra le mura domestiche. “E’ triste – continua il presidente di Pangea -, ma posso dire che tutte le donne che abbiamo assistito, parliamo di circa 40mila persone, sono o erano vittime di violenza. È ancora oggi una cosa normale in Afghanistan e, per un uomo, non riuscire a mettere in riga la propria moglie o le proprie figlie è un segno di debolezza all’interno della comunità”.
I segnali di un graduale miglioramento in questo campo, si possono ritrovare proprio nel processo di emancipazione, nella possibilità per le donne di mettere piede fuori dalla propria casa autonomamente: “Ѐ questo il nostro riferimento – spiega Lo Presti – All’inizio, nessuna donna si interessava ai nostri progetti. Oggi sono anche troppe rispetto alle nostre possibilità e i mariti svolgono un ruolo importante in questo. Ho visto donne vittime di gravissime violenze, ripudiate dai coniugi, private dei figli, le abbiamo accompagnate in tribunale. Per rendere l’idea, l’insegnante afghana di Pangea che si occupa di supportare le donne nel loro processo di emancipazione era lei stessa vittima di violenze da parte del marito, con il fratello, che lavora con noi e quindi non può essere considerato un ultraconservatore, che accettava la situazione e non si intrometteva. Solo nel 2010 è riuscita a separarsi. Questi casi sono come virus che attaccano i dogmi del Paese e piano piano hanno aiutato altre vittime a ribellarsi”.
Così le donne hanno ottenuto l’appoggio dei mariti per migliorare la propria condizione. Hanno iniziato a lavorare, a studiare, a partorire negli ospedali cittadini garantendosi una migliore assistenza sanitaria e alcune di loro si sono anche lanciate in politica, magari proprio con l’intento di portare nelle istituzioni il tema dell’emancipazione femminile. “Pochi mesi fa – conclude Lo Presti – il Paese è andato a votare e in città come Kabul era normale vedere manifesti elettorali di candidate donne. Come ho detto, si tratta di un virus benignoche ha infettato la società afghana e gli attori coinvolti devono continuare ad alimentarlo”.
Sì, perché se dalla caduta del regime dei Taliban si sono visti dei graduali miglioramenti, l’Afghanistan rimane uno dei Paesi al mondo che più viola i diritti delle donne. I progressi più evidenti sono avvenuti nelle città, dove la presenza delle forze della coalizione ha garantito un minimo di sicurezza ai progetti di cooperazione avviati nel corso degli anni e la società era culturalmente più pronta a concessioni sui dogmi della tradizione conservatrice: “Ci sono Kabul, Herat, Mazar-i Sharif… Poi però c’è il resto dell’Afghanistan”, dove non solo le donne sono vittime dell’oscurantismo dei Taliban, ma di una cultura conservatrice e restrittiva che impedisce loro di emanciparsi e le rende degli oggetti in mano ai padri o ai mariti.
Come si legge nell’ultimo rapporto sulla violenza sulle donne dell’Unama, la Missione delle Nazioni Unite di assistenza all’Afghanistan, omicidi, violenze, mutilazioni, il fenomeno delle spose bambine e la pratica del baad, ossia di cedere una donna come pagamento in cambio di un grave crimine commesso nei confronti di una famiglia, sono ancora diffusi in tutto il Paese. Solo tra gennaio 2016 e dicembre 2017, l’Unama ha registrato 280 casi di omicidio o delitti d’onore. La legge, oggi, punisce questi casi come qualsiasi altro crimine grave ma, nella realtà, sono ancora oggi accettati. Non a caso, solo 50 degli episodi registrati, il 18 per cento, hanno portato alla condanna dell’assassino. Il tasso medio di alfabetizzazione, al 25 per cento, scende al 2 per cento man mano che ci si sposta dai grandi centri verso le aree rurali, con il numero di donne occupate che va gradualmente azzerandosi. “La strada da fare è ancora tantissima e questo virus benigno deve ancora espandersi su gran parte del Paese – conclude Lo Presti – Ma con i Taliban tornerebbe immediatamente il buio”.
dal web di Antonio Gentile