A pochi giorni dall’arresto in Bolivia, Cesare Battisti è stato posto ieri nel carcere di Oristano: 37 anni di latitanza si concludono con l’ergastolo senza benefici, a cominciare da 6 mesi d’isolamento diurno. La Procura di Milano apre intanto una nuova inchiesta sulla rete di protezione dell’ex Pac. E Salvini lancia la caccia agli altri latitanti del terrorismo.
Prendere Alessio Casimirri, per proseguire la scia di arresti di latitanti eccellenti degli anni di piombo. Dopo la cattura del leader dei Pac, Cesare Battisti, e il suo ritorno nelle carceri italiane, nel mirino del Viminale e degli investigatori c’è soprattutto uno dei componenti del commando delle Brigate Rosse che sequestrò Aldo Moro. Casimirri, condannato all’ergastolo con sentenza definitiva, nella sua latitanza in Nicaragua da oltre 30 anni ha acquisito la cittadinanza del Paese sudamericano e gestisce un ristorante sulla costa.
“Stiamo lavorando per recuperare terroristi che se la stanno godendo in giro per il mondo”, ha detto il ministro dell’Interno Matteo Salvini a margine della conferenza stampa a Palazzo Chigi. E tra questi ci sarebbe anche Casimirri. Il riferimento ad “un altro” latitante su cui la polizia ha il fiato sul collo è stato fatto proprio dal vice capo della polizia Nicolo’ D’Angelo. Durante il suo breve incontro con il ministro dell’Interno all’aeroporto di Ciampino, subito dopo l’atterraggio dell’aereo con Battisti, il vice capo della polizia ha detto a Salvini: “Poi ce ne sarebbe un altro che forse ci rinnoverà gli auguri. Ce n’è uno che e’ una grande perla, mi è rimasto in gola ma abbiamo carte da giocare”.
La cattura di Cesare Battisti può finalmente aprire il capitolo delle connessioni e delle connivenze politiche tra terrorismo rosso e politica. Di tanto almeno è convinto Carlo Parolisi, l’agente del Sisde che nel 1993, insieme a Mario Fabbrie a un altro agente sotto copertura, volò a Managua per una serie di incontri con Alessio Casimirri, che fu nel commando delle Br che il 16 marzo del 1978, in via Fani, rapì Aldo Moro dopo aver massacrato i cinque uomini della sua scorta. Il presidente della Dc fu poi ucciso un paio di mesi dopo, il 9 maggio, a seguito di una trattativa in cui non mancarono colpi di scena, depistaggi, omissioni clamorose ed errori grossolani.
Quella missione a Managua poteva rivelarsi decisiva per fare chiarezza assoluta sulle ombre che da sempre accompagnano il cosiddetto “caso Moro“. E forse sarebbe accaduto se, lamenta Parolisi, «quel maledetto scoop dell’Unità» non avesse rivelato la collaborazione di Casimirri con i servizi segreti mandando tutto in fumo. E oggi l’ex-007, di quella missione, rivendica la giustezza: «Non fu un depistaggio, – dice – ma un’operazione di intelligence». Che, sostiene, fallì per la volontà di qualcuno che evidentemente aveva paura di quanto il terrorista avrebbe potuto rivelare. Ad introdurre la tesi del depistaggio sul viaggio in Nicaragua è stato Sergio Flamigni, scrittore e più volte parlamentare comunista, che nel suo libro Il quarto uomo del delitto Moro fa sua la ricostruzione dello studioso Giuseppe De Lutiis, secondo cui il viaggio del Sisde in Nicaragua non era visto «a più alto livello come realmente inteso a ottenere l’espulsione di Casimirri» ma «ad acquisire informazioni o a tranquillizzare il terrorista», se non, addirittura, «a depistare la magistratura romana sull’identità del quarto uomo di via Montalcini».
L’intelligence oggi è indispensabile nella caccia ai latitanti, ricostruzione contestata da Parolisi parola per parola: «Non fummo inviati in missione, ma costruimmo noi stessi le premesse per effettuarla, nonostante i forti dubbi espressi dai vertici del Servizio». Per l’agente del Sisde, quella ricostruzione è il «frutto di un pregiudizio, una forzatura non dovuta» dovuta alla mancanza in Italia di «cultura dell’intelligence» e dei servizi, cui vengono associati a trame e depistaggi. Prova nei sia, per Parolisi, che «si accetta come una cosa normale che Morucci abbia collaborato con l’autorità giudiziaria», mentre «una collaborazione con i servizi evoca trame oscure». Invece, spiega ancora Parolisi, nella nuova guerra dichiarata ai latitanti degli Anni di piombo, l’apporto dei servizi non sarebbe da sottovalutare.
Salvini ha spiegato che dopo la cattura di Battisti si sta “lavorando su altre decine di terroristi: su alcuni abbiamo già riscontri positivi, ovviamente non entro nel merito dei nomi e dei luoghi”. Tra i terroristi italiani fuggiti all’estero, in tutto una cinquantina, ci sono Giorgio Pietrostefani, condannato a 22 anni per l’omicidio del commissario Luigi Calabresi e Enrico Villimburgo, altro brigatista condannato all’ergastolo nel processo Moro-ter. Entrambi si trovano in Francia, così come Simonetta Giorgieri, leader delle Br toscane, condannata al’ergastolo per l’omicidio Moro.
dal web di Antonio Gentile