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Licio Gelli confida ad un amico: “se non mi danno un aiuto salta tutto” – “Il dissesto del Banco Ambrosiano era dovuto alla Polonia”. Secondo Gelli, le pressioni per i finanziamenti sarebbero venute da Monsignor Marcinkus, il presidente dello Ior, la banca vaticana. «Fu papa Wojtyla a organizzare tutto» afferma. «Quando si progetta una “rivoluzione” le necessità finanziarie sono enormi. E Calvi era una persona leale, se prometteva una cosa la manteneva». Non solo. Calvi (come Sindona) era iscritto alla P2.
Il figlio del banchiere, Carlo Calvi, ha però rivelato che tra le cose che il padre aveva con sé nella borsa a Londra, quando morì, c’era anche una cartelletta intitolata “Bologna”. Secondo lui il padre conosceva i mandanti della strage del 2 agosto 1980 e con quei nomi avrebbe ricattato la P2 e gli ambienti dei servizi segreti deviati (quelli cioè che invece di essere al servizio dello Stato ne minavano le basi democratiche). Per questo c’è chi ha pensato che Gelli potesse essere tra i mandanti del “suicidio” di Calvi.
Gli anni dopo la strage di Bologna portarono a Gelli una notorietà non richiesta. Il 17 marzo 1981, in uno dei suoi uffici, indagando sul presunto rapimento di Sindona, i magistrati sequestrarono un elenco alfabetico di 962 iscritti alla loggia P2, che la presidenza del Consiglio rese pubblico il 21 maggio di quell’anno. Nella lista c’erano giornalisti, imprenditori, banchieri, sottosegretari, alti ufficiali della Finanza e dei Carabinieri e persino ministri. Dopo il sequestro (di cui era stato evidentemente avvertito) Gelli si rese latitante. Fu arrestato a Ginevra il 13 settembre 1982, mentre stava tentando di effettuare un’operazione bancaria. Ma un anno dopo evase dal carcere svizzero di Champ-Dollon. Si costituirà solo nel 1987.
Intanto, nel 1984, la commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2, presieduta da Tina Anselmi, concludeva il suo lavoro. Nella relazione finale si legge che la lista era “attendibile” e che la P2 era “un’organizzazione che aspirava non alla conquista del potere nelle sedi istituzionali, ma al controllo di esse in forma surrettizia , Gelli era il punto di collegamento fra la piramide superiore, nella quale vengono identificate le finalità ultime, e quella inferiore, dove esse trovano pratica attuazione”.
La P2 fu sciolta con la legge n° 17 del 1982, che rese anche illegali in Italia la costituzione di logge segrete con finalità analoghe. Ma lui, l’ex Venerabile, fa notare che la P2 è stata assolta nei tre gradi di giudizio dalle accuse di cospirazione ai danni dello Stato. E i massoni italiani ricordano che la Corte europea di Strasburgo, nel 2001, ha condannato il nostro governo per aver violato – con una legge che impone per alcune cariche pubbliche di dichiarare la propria appartenenza a una loggia – il diritto di associazione garantito dall’articolo 11 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La maggior parte degli storici però concorda: sul ruolo della massoneria “deviata” non è ancora stata fatta del tutto chiarezza.
Intanto sul fronte delle indagini si registra il più completo marasma. Ufficialmente perché lo Stato, abituato a combattere fino a quel momento il terrorismo al Nord, non è preparato a fronteggiare le Br nel Centro Italia. Sostanzialmente perché quella disorganizzazione, come dice qualcuno in commissione Moro, appare fin troppo organizzata. Per individuare dove è nascosto Moro, dal Nord viene spostato un contingente di dieci carabinieri del reparto di dalla Chiesa, alle direttive del generale Bozzo. Uomini super addestrati che però vengono risucchiati in una situazione davvero surreale.
«In occasione del sequestro Moro», dichiara il Generale Bozzo alla commissione, «ci siamo trovati in questa tragica situazione, e io, che ero il coordinatore, non coordinavo più niente, perché c’erano ben quattro livelli tra me e la periferia: le notizie pervenivano frammentate, soppesate, ma soprattutto ritardate». Bozzo parla di un grumo di potere annidato all’interno dell’Arma e appartenente alla P2.
In commissione Moro, il senatore Libero Gualtieri, rivolgendosi a Bozzo dichiara: «Lei dice che, arrivato a Roma, praticamente non le hanno fatto fare niente, tanto che, non sapendo cosa fare, se ne andava al cinema il pomeriggio. Ora, in pieno rapimento Moro, vengono dieci carabinieri con il comandante del Nucleo più esperto dell’antiterrorismo da Milano, si incontra con un altro Nucleo dell’antiterrorismo a Roma, e non gli fanno fare niente… ». Bozzo: «Abbiamo fatto una sola perquisizione. Nel pomeriggio non avevamo nulla da fare, non avevamo un riferimento, non avevamo una persona che ci guidasse».
Libero Gualtieri: «O c’è stato un complotto, per cui si è deciso a qualsiasi livello politico, amministrativo, che Moro non doveva essere cercato, oppure c’è stato un livello tale di confusione e di marasma, di incapacità, che non c’è stato bisogno di un complotto». E incalzando: «In un libro della famosa giornalista inglese Alison Jamieson si parla di un esperto di terrorismo inglese, il Generale Head, il quale afferma che una qualsiasi polizia mediocre avrebbe trovato Moro effettuando delle normali investigazioni», quando a Castiglion Fibocchi, nella casa di Licio Gelli, vengono rinvenuti i tabulati con le liste degli iscritti alla P2, si capisce perché le indagini per ritrovare Moro non sono andate avanti.
Nomi di alti ufficiali che nei giorni del sequestro, hanno un ruolo fondamentale nello svolgimento delle indagini. Alcuni di questi vengono promossi addirittura durante i cinquantacinque giorni della prigionia di Moro, altri subito dopo: il direttore del Sismi, Giuseppe Santovito; il prefetto Walter Pelosi, direttore del Cesis; il generale Giulio Grassini, componente del Sisde; l’ammiraglio Antonino Geraci, capo del Sios della Marina Militare; Federico Umberto D’Amato, direttore dell’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno; il comandante della Guardia di Finanza, Raffaele Giudice; il generale Donato Lo Prete, capo di Stato maggiore della Guardia di Finanza; il generale dei Carabinieri Giuseppe Siracusano.
Un lungo elenco che dimostra come nel periodo del rapimento Moro la strategia dell’eversione abbia attraversato il cuore dello Stato.
Ma c’è un’altra circostanza sconvolgente che dimostra come lo statista, nei cinquantacinque giorni di prigionia, potesse essere salvato. Una tesi che, malgrado “non vi siano elementi probatori a sostegno”, come scrivono i magistrati di Perugia, emerge dagli articoli di Mino Pecorelli, dagli atti della commissione Moro e dagli atti del processo sul delitto Pecorelli.
In queste carte si legge che Carlo Alberto dalla Chiesa era a conoscenza del luogo dove era tenuto nascosto il presidente della Dc. Pare che fosse previsto il rilascio di Moro sotto la sorveglianza dei carabinieri. Ma per un’irruzione era necessario il placet del governo. Se lo statista fosse stato ucciso durante un conflitto a fuoco, non poteva essere il solo dalla Chiesa a pagare. Dunque era necessario il via libera da parte dell’esecutivo. Dalla Chiesa si sarebbe recato da Cossiga per ottenere un assenso, ma Cossiga avrebbe detto di no. Perché? Il ministro dell’Interno si sarebbe trincerato dietro a una metafora. C’è una «Loggia di Cristo in paradiso» che si oppone.
Anche una parte della politica si mobilita per salvare lo statista democristiano. Sono due i rappresentanti parlamentari che contattano i boss affinché si possa arrivare ai terroristi. Politici di secondo piano che probabilmente agiscono per conto di alti vertici dello Stato, i quali ritengono di non esporsi sia per non compromettersi direttamente, sia per evitare la gogna in caso di insuccesso. I partiti ufficialmente si sono espressi quasi all’unanimità per la linea dura: l’iniziativa di contattare la criminalità per salvare Moro, più che finalizzata a trattare, appare finalizzata a sondare, per decidere eventualmente il da farsi.
“E così due illustri sconosciuti del mondo politico, Edoardo Formisano del Movimento sociale italiano, e Benito Cazora della Democrazia cristiana fanno i loro passi per il rilascio del prigioniero”.
Mediante i contatti con i capi della mala milanese Francis Turatello e Ugo Bossi, Formisano riesce ad arrivare a Tommaso Buscetta e a proporre a Cosa nostra una trattativa segreta con le Br. La proposta viene illustrata da Stefano Bontate alla «Cupola» riunita appositamente. Alla fine di un summit molto acceso, Pippo Calò taglia corto: «Non l’avete ancora capito? Moro lo vogliono morto quelli stessi della Dc». La trattativa non va avanti.
Dunque, almeno due giorni prima della morte di Moro, lo Stato sa dove è nascosto il prigioniero (ma probabilmente lo sa da prima, visto che dalla Chiesa avrebbe già informato Cossiga), sa che Moro da trentasei ore è senza vigilanza, e sa che per liberarlo è necessario un blitz.
«Lettieri telefona al capo della Polizia, ma al suo posto arriva il questore De Francesco», colui che nel 1982, dopo l’assassinio dalla Chiesa, sarà nominato dal governo Commissario straordinario per la lotta alla mafia.
«De Francesco dice che da loro informazioni Aldo Moro sarebbe stato consegnato vivo il martedì successivo». Non solo: «De Francesco dice pure che non può fornire il personale richiesto», c’è pure quella del lago della Duchessa, nello stesso giorno in cui fu scoperto il covo di via Gradoli, siamo ad aprile, un falso comunicato delle Brigate Rosse dice di cercare il cadavere di Moro in questo lago. Si dice che a realizzare quel comunicato fu il falsario d’arte Tony Chichiarelli, legato alla Banda della Magliana. Forse si ipotizza che quella storia fu inventata dai servizi segreti, con un obiettivo: convincere le Brigate Rosse a fare in fretta ad ammazzare Moro, che per loro era già morto.
“Dunque, se quello che emerge è vero, non solo c’è la certezza che lo Stato sa, ma c’è anche la certezza che lo Stato non vuole salvare lo statista democristiano”. Infatti “il martedì 9 maggio 1978, Aldo Moro viene ritrovato morto”.
Allora chi uccise Aldo Moro, non fu materialmente ammazzato dalle Brigate Rosse?. Quindi abbiamo: Il 60% di verità, il 20% di finzione o il 20% di zona grigia?
L’ipotesi inquietante è che il Presidente della Democrazia Cristiana sia stato liberato e ucciso successivamente. La maggioranza delle Brigate Rosse voleva liberare Moro, una minoranza, i brigatisti vicini a Hyperion, no. (Hyperion è una scuola di lingue fondata nel 1977 a Parigi, i tre fondatori avrebbero partecipato precedentemente con Renato Curcio, Albero Franceschini e Mario Moretti alla fondazione delle Brigate Rosse ).
Quindi il mistero della morte del Premier si infittisce a 40 anni dalla sua morte.
di Antonio Gentile