Ogni giorno, su tutti i giornali, leggiamo che il debito pubblico italiano è il grande salasso della nostra economia. Ma cos’è il debito pubblico? Quando ha assunto queste dimensioni e come sarebbe possibile ridurlo?
Prendete il nostro debito pubblico, convertitelo in monete da un euro e provate a metterle una sull’altra. Impresa impossibile ovviamente, ma l’eventuale «pila» che si formerebbe sarebbe alta più di 5,25 milioni di chilometri e potrebbe quindi coprire quasi 14 volte la distanza tra la Terra e la Luna. Il nostro, insomma, è un vero e proprio debito stellare. Nel corso del 2017 è cresciuto al ritmo di 68.700 euro al minuto e a fine 2017, dopo un picco sopra quota 2.300 miliardi toccato a luglio, si è assestato a 2.256.
Ed ovviamente continua a salire, al netto delle gestioni patrimoniali dei residenti all’estero, gli investitori stranieri detenevano a fine 2018 debito pubblico italiano per appena 465 miliardi di euro, qualcosa come il 24% del totale negoziabile. Se vi sembra poco, dovreste sottrarre ancora altri 130 miliardi, quelli in capo alla BCE e legati ai suoi programmi di acquisto di titoli di stato, il “quantitative easing” del 2015 e il “Securities Markets Program” del 2010, al netto dei quali la quota in capo agli investitori privati stranieri scenderebbe a meno del 17%.
E più dei tre quarti di questo debito italiano all’estero si trova nell’Eurozona, mentre appena il 22% si ha fuori dai confini dell’unione monetaria, cioè qualcosa come poco più di 100 miliardi. Per essere brutali, nonostante i BTp rendano più di tutti gli altri bond nell’area, esclusi i titoli greci, non se li fila nessuno. Hai voglia a proporre rendimenti decennali al 2,5% contro lo zero della Germania; i mercati continuano a comprare Bund.
E lo spread non scende granché, nonostante stia crollando ovunque, con il Portogallo a vedere vicina la soglia dei 100 punti base. Niente da fare, l’Italia non attira capitali dall’estero e se non fosse per le banche domestiche, tornate ad acquistare titoli di stato per un controvalore superiore alle dismissioni realizzate negli ultimi mesi dello scorso anno, i rendimenti dei nostri BTp sarebbero ancora più alti. Davvero fa così tanta paura il nostro debito pubblico? E perché?
L’aspetto paradossale è che siamo stati l’economia occidentale meno “spendacciona” dopo lo scoppio della crisi finanziaria del 2008. Avendo già un rapporto debito/pil elevato in partenza, superiore al 100%, ci siamo frenati dallo spendere e, anzi, abbiamo stretto un po’ la cinghia, mentre tutti gli altri stati europei salvavano le rispettive banche con soldi pubblici e sostenevano l’economia. Nella fretta di dimostrarci più responsabili che mai, specie dopo la tempesta dello spread nel 2011, già nel 2012 siamo stati in grado di centrare il target del deficit al 3%, violato solamente per 3 anni consecutivi, molti meno dei 9 della Francia.
Eppure, oggi siamo la pecora nera d’Europa, additati quale epicentro di ogni terremoto finanziario possibile e immaginabile. Come mai? Vero, nel frattempo, a causa della mancata ripresa dell’economia, il rapporto debito/pil da noi risulta esploso sopra il 130%, mentre Francia e Spagna si collocano di poco sotto il 100% e la Germania si è portata al 60%.
Cosa preoccupa dell’Italia?
Possibile mai che quel 30% di differenza con Madrid e Parigi crei tutta questa apprensione? E perché, allora, il Portogallo non preoccupa più nessuno, nonostante un debito solo un po’ più basso del nostro? In fondo, l’Europa è dovuta intervenire per salvare le banche spagnole con 48 miliardi nel 2012 e la Troika (UE, BCE e FMI) il Portogallo con 78 miliardi nel 2011. Adesso, chi ha preso i soldi è diventato il buono e chi non ha mai alzato bandiera bianca il cattivo della situazione. A meno di scadere nelle ipotesi complottiste più fantasiose, dovremmo ammettere che qualcosa non vada negli ultimi anni. Ed è così, ma la spiegazione andrebbe ricercata forse più in patria che all’estero.
L’Italia vanta avanzi primari sin da inizio anni Novanta, con la sola eccezione del 2009. Significa che riusciamo a chiudere i bilanci in attivo ogni anno, al netto della spesa per interessi sul debito. La Germania ci riesce da qualche anno, mentre la Francia ancora no. Se pagassimo gli stessi tassi di Parigi, avremmo chiuso nel 2018 con un deficit intorno al mezzo punto percentuale. E poiché questo discorso va avanti da decenni, dobbiamo concludere amaramente che il problema dell’Italia sia la spesa per interessi che auto-alimenta il nostro debito. Dunque, se è vero che spendiamo male i denari pubblici, non sarebbe nemmeno questa la fonte del nostro debito, quanto la mancanza di fiducia sui mercati, che induce gli investitori a pretendere rendimenti superiori a quelli di quasi ogni altra economia avanzata del pianeta, a parità di condizioni.
Eppure, nell’euro non possiamo più svalutare il cambio e né possiamo inflazionare l’economia per monetizzare il debito, per cui non vi sarebbe ragione credibile per chiedere rendimenti così alti, a meno di non temere il default. La sfiducia nascerebbe da altro, ovvero dalla cattiva governance. L’Italia è uno stato dell’Occidente, che dall’Unità d’Italia ad oggi vive una drammatica e perenne crisi delle istituzioni e politica, non riuscendo mai a garantirsi un asseto stabile per governare in un’ottica di medio periodo. L’unica parentesi di stabilità coincide con il fascismo, che non fu certo un’esperienza democratica. Questo rimarca, semmai, come dall’estero qualcuno possa essere giustificato ad azzardare che non saremmo fatti per la democrazia, visto che cambiamo governi con una frequenza ignota alla stragrande maggioranza dei paesi sviluppati.
Istituzioni inadeguate
Governi di breve durata sono anche deboli e senza alcuna possibilità di attuare un programma coerente e ragionato negli anni. Nella sola Seconda Repubblica, cioè in 25 anni, abbiamo avuto 13 esecutivi (compreso l’attuale), cioè più di uno ogni 2 anni, nonché 10 premier, uno ogni 2 anni e mezzo. Basterebbero questi numeri per capire il senso del ridicolo di cui ci copriamo agli occhi del mondo. Ma è solo una parte del problema italiano, il grosso del quale risiede nella mentalità arcaica e anti-capitalista dei politici. Da decenni, l’unica occupazione dei governi che si susseguono a ritmi spasmodici è di produrre leggi, le quali si accumulano le une sulle altre, dando vita a una legislazione confusa, contraddittoria e copiosissima, tant’è che nemmeno sommando il resto della UE si arriva ai nostri livelli.
Quando investi, hai bisogno di capire, anzitutto, cosa puoi e non puoi fare. In Italia, non è mai possibile saperlo. Le leggi dicono apparentemente una cosa, i giudici ne interpretano un’altra, la Cassazione finisce per fornire una propria spiegazione e il Parlamento segue integrando e cancellando, rendendo il tutto un rebus.
Per non parlare dei tempi della giustizia, per cui una causa civile potrebbe richiedere anche un decennio in media per essere decisa. Nel frattempo, le ragioni dell’imprenditore vanno a farsi benedire. E mentre tutto intorno collassa, tra l’incuria per le infrastrutture e ampie fette di territorio abbandonate alla criminalità organizzata e alla depressione economica, a Roma si ragiona di tutto, fuorché di come rilanciare la creazione di ricchezza. Al contrario, da decenni si dibatte su come distribuirla, con le opposte fazioni a contendersi gli amabili resti di un’economia privata messa in ginocchio.
Tutti, da destra a sinistra, concordano su quali siano i mali italiani: alta tassazione del lavoro e sulle imprese, alta burocrazia, carenza di infrastrutture, distanza tra scuola e lavoro, giustizia lumaca, mercati ingessati da scarsa concorrenza ed eccessivo peso dello stato nel controllo dell’economia, attraverso le controllate grandi e piccole sul piano nazionale, nonché la fitta rete delle municipalizzate, perlopiù carrozzoni locali tenuti in vita per ragioni di puro clientelismo politico e che drenano risorse dei contribuenti. Si alternano i governi, ma nessuno mette mai mano a questi dossier, semplicemente perché le modalità con cui ogni coalizione vince da decenni le elezioni restano le stesse: clientelismo spicciolo al sud, promesse di più spesa e assistenza, rischi paventati di fine della democrazia nel caso di vittoria dell’altro e fumo negli occhi del taglio delle tasse, reso impossibile dai punti precedenti.
Preoccupa la frustrazione degli italiani
All’estero, ci hanno capiti da un pezzo e negli ultimi anni si stanno impensierendo sempre più per l’avvertita retorica contraria al libero mercato, che un po’ trasversalmente tutti gli schieramenti hanno adottato per sopperire sul piano comunicativo all’assenza di risultati positivi del proprio operato. Volete per caso che vengano a portarci i capitali dall’estero, quando in Italia chi li possiede li espatria? Senza investimenti, non c’è crescita e senza crescita, anche un debito apparentemente innocuo rischia di esplodere e di diventare insostenibile. Di più: gli elettori frustrati dall’assenza cronica di crescita iniziano prima o poi a reclamare soluzioni forti. Se nessuno osava anche solo immaginare di mettere in forse l’euro fino a 10 anni fa, adesso il quadro è cambiato, non fosse altro perché il numero di quanti ritengono di avere poco o niente da perdere si assottiglia man mano che il tempo passa. E i sondaggi segnalano, appunto, che saremmo diventati il popolo più euro-scettico del continente, prova del malcontento diffuso e dell’insoddisfazione per le proprie condizioni di vita.
Sta sfarinandosi il quadro istituzionale all’interno del quale si colloca l’Italia. Ciò rende il nostro Paese, agli occhi degli investitori stranieri, un’incognita indecifrabile, perché di questo passo nulla potrà essere escluso per il futuro, anche che un qualche governo arrivi a ristrutturare il debito, a saltare le scadenze o a dichiarare default, non disponendo di alternative per la realizzazione del suo programma.
I soli dati finanziari non autorizzerebbero tanto pessimismo, ma è la lettura d’insieme a rendere il tutto molto più drammatico. In fondo, le istituzioni, pur con la resilienza ai cambiamenti paradigmatici che le caratterizza, rispecchiano volontà e modi di pensare dei cittadini. E questi non possono che risentire del deterioramento delle condizioni di vita. In pochi forse pensano che davvero il debito pubblico italiano sia poco sostenibile, ma in tanti iniziano a credere che gli italiani non ne possano più di fare sacrifici senza vedere mai risultati e che dalla loro frustrazione possano conseguire soluzioni drastiche e imprevedibili. In confronto, persino i dolori dei greci fanno meno paura, perché in fondo sono molto più recenti e concentrati (ad oggi) in un breve lasso di tempo.
di Antonio Gentile