Anche all’interno del paradosso: la rissosità politica di questo paese segmentato trasmette un’idea ansiogena, anche all’estero, di continuo cambiamento e palingenesi, ma sotto la superficie le cose si muovono con estrema lentezza, con formalità e informalità che spesso si dispongono in contraddizione tra loro.
Non è un caso che l’opinione pubblica italiana degli ultimi trent’anni abbia considerato l’Unione Europea come lo sperone principale, se non unico, per introdurre riforme strutturali.
Riforme però spesso avversate dalla politica italiana e dalla maggioranza stessa del Paese
E sempre depotenziate dalla pressione di partiti, corporazioni, resistenze territoriali.
Il fatto che si continui a parlare di Europa come di un “vincolo esterno”, con una espressione che allude alla camicia di forza e all’azione subita obtorto collo anche da parte di chi si dice a favore dello stesso, è sintomatico di quanto sia lenta la propensione al cambiamento della penisola a macchia di leopardo.
Così come i toni trionfalistici per i nuovi fondi europei, largamente esagerati nella politica italiana se si comparano alle altre nazioni, subito si ridimensionano quando il paese è costretto a fare i conti con le proprie debolezze amministrative, giuridiche e istituzionali e a misurarsi con un cambiamento richiesto.
Per questo quando si analizza la politica italiana è sempre bene non farsi impressionare dalle dichiarazioni roboanti, dagli allarmismi, dalle crescite elettorali vertiginose e dai crolli rovinosi, dalla nascita continua di nuovi movimenti, partiti e leader.
Ad una radiografia precisa degli equilibri di potere che contano essi restano molto più stabili di ciò che si è portati a pensare.
Non è un incidente del destino che il moderno elitismo sia stato teorizzato da italiani, Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto e Roberto Michels, i quali fotografavano una società gerarchica che si approcciava alla democratizzazione senza perdere il proprio asse verticale ma soprattutto una circolazione delle classi dirigenti inevitabile ma lenta e graduale, fatta di resistenze e rendite, di piccoli gruppi in competizione tra loro disposti a tutto per conquistare o tenere il potere più che rovesciarlo o riformarlo
Dal suo insediamento fino ad oggi il governo Meloni rientra perfettamente nello schema del paese “a macchia di leopardo” e di conservazione sotterranea, ben mostra la capacità di compromesso che esiste tra politica ed establishment decentrato.
I timori e i rischi per una deriva totalmente euroscettica che si paventavano nel corso della campagna elettorale si sono rivelati di fatto infondati fino ad oggi, non sono state varate azioni militari di blocco navale contro il diritto internazionale per fermare l’immigrazione, non ci sono state leggi di bilancio avventate o politiche di spesa più controverse rispetto a quelle dei governi precedenti.
Negli ultimi cinque anni sono andati al governo: una forza anti-politica, anti-establishment, in origine no-euro (Movimento 5 Stelle); una forza politica nazional-populista, no-euro (Lega); una forza politica di destra, euroscettica (Fratelli d’Italia). Eppure l’Italia, nonostante maggioranze, di marca diversa, che includevano queste forze, non si è mai discostata dai propri vincoli europei e internazionali.
Due forze su tre (Lega e Movimento 5 Stelle), per i propri limiti più che per volontà, alla fine hanno anche contribuito a rieleggere il Presidente della Repubblica e hanno sostenuto il governo Draghi in una maggioranza di unità nazionale, mentre Fratelli d’Italia ha svolto il ruolo dell’opposizione responsabile e collaborativa.
È come se la politica italiana avesse, sotto la coltre della propaganda, interiorizzato il vincolo esterno e fosse divenuta sempre pronta a rivedere, completamente o quasi, le proprie posizioni politiche nel medio periodo.
Ciò anche grazie all’azione della Presidenza della Repubblica che, essendosi trasformata nell’unico appiglio di stabilità politico-istituzionale dell’ultimo decennio, ha saputo trarre vantaggio in termini politici dal repentino ricambio della classe politica per imporre la propria influenza ed il proprio “cordone sanitario”, rispetto al dettato costituzionale, i vincoli europei e gli indirizzi delle relazioni internazionali, su partiti e leader nuovi, più radicali e spesso inesperti.
Il Capo dello Stato ha però pagato la frammentazione e la debolezza dei nuovi e vecchi attori trasformandosi in un “risolutore di crisi” e “compositore di governi”, costretto a favorire la costruzione di coalizioni inedite per far proseguire l’ultima legislatura.
La politica estera offre altri buoni esempi dell’incoerenza e al tempo stesso della continuità della politica italiana. I partiti che avevano condotto una polemica anti-euro hanno fatto sparire quella posizione una volta andati al governo.
Gli ideologi no-euro, molto presenti sul piano mediatico tra il 2013 e il 2018, sono stati messi in secondo piano dai partiti e non hanno mai ricoperto ruoli di governo di primo piano. In questo senso la Lega, con la sua anima bipartita tra le radici nelle piccole medie industrie del nord e il movimentismo anti-establishment ed euroscettico, è stato l’esempio migliore di un minotauro politico pronto a trasformarsi sempre.
Lo stesso si può dire per il Movimento 5 Stelle, partito che fino alle politiche del 2018 propagandava la promozione di un referendum sull’euro, che nel 2019 con il suo voto a Bruxelles si è rivelato fondamentale sul piano numerico per l’elezione di Ursula von der Leyen come Presidente della Commissione Europea.
Ma anche la guerra in Ucraina ha mostrato una stupefacente capacità di adattamento dei partiti italiani.
Più evidenti nella Lega e in Forza Italia, ma presenti anche in Fratelli d’Italia, erano le posizioni filo-russe che vedevano in Vladimir Putin un qualche modello politico identitario e conservatore da non condannare.
Meloni ha fatto sparire questa posizione di amicizia e apertura verso il regime russo prima degli altri, Salvini è stato costretto ad una inversione totale quando ha scelto di entrare nella maggioranza di unità nazionale guidata da Mario Draghi, e Forza Italia, pur con Berlusconi ancora incline a difendere Putin pubblicamente, ha di fatto sempre sostenuto la linea atlantica sia del governo Draghi che di quello Meloni.
Anche sull’immigrazione c’è uno sfasamento tra promesse e realtà: il blocco navale proposto da Fratelli d’Italia negli anni scorsi è sparito una volta preso il governo mentre le politiche migratorie si pongono, di fatto, in continuità con quelle degli ultimi governi ,
Dunque, c’è una grande incoerenza politica ma al tempo stesso una disponibilità a cedere con estremo realismo ai vincoli esterni ed interni per mantenere il potere. La modalità di formazione dello stesso governo Meloni è un esempio interessante.
Scritto da Franco Capanna Editorialista.