Nella vita lavorativa di ciascuno, c’è un momento delicatissimo che determina quasi sicuramente anche i successivi decenni di carriera. È l’inizio, il primo lavoro, la prima esperienza lavorativa dalla fine degli studi. Non si tratta solo del cosa, ovvero della tipologia di azienda in cui con piacere o rassegnazione ci si troverà a lavorare, ma anche del se: se si troverà un’occupazione, e in quanto tempo.
È questo momento che rappresenta un tallone di Achille non solo per i più giovani, ma per tutto il sistema economico italiano. Perché quanti meno sono coloro che, nonostante abbiano studiato, riescono a lavorare, e quanto più è il tempo che devono attendere per farlo, rimanendo nel frattempo senza un’occupazione, tanto meno saranno i contributi che potranno essere versati per pagare le pensioni, il gettito fiscale che può alimentare il welfare o le promesse dei politici. È sul momento cruciale dell’inizio della carriera che in Italia siamo fragilissimi.
A tre anni dal titolo, solo il 47,1% dei diplomati tra i 20 e i 34 anni e il 58% dei laureati lavora. Sono il 73,8% e l’82,8% nella UE, l’89,1% e il 92,7% in Germania, e anche in Francia e Spagnaci battono.
Devono passare 5 anni prima che più della metà dei diplomati risulti occupato: solo dopo quel periodo il gap tra l’Italia e gli altri Paesi finalmente diminuisce a livelli accettabili, ma praticamente solo per i laureati.
Nonostante ogni discorso pubblico in Italia sembri riguardare sempre solo a chi ha finito l’università e poi fatica a trovare un impiego degno dei propri studi, magari vedendosi costretto a volare all’estero, l’emergenza in realtà è altrove. Ovvero in quella maggioranza che si ferma al diploma – perché, lo sappiamo, abbiamo il record minimo di laureati in Italia.
Ed è tra i diplomati che in questi anni le distanze con i coetanei del resto d’Europa sono peggiorate. La ripresa, che pure c’è stata dal 2014 in poi, non è riuscita neanche lontanamente a riportarci ai livelli del 2007-2008, come invece è accaduto al tasso d’occupazione generale, tornato alle percentuali di quegli anni.
I giovani diplomati rimangono invece oggi più di 10-12 punti al di sotto del periodo di “massimo splendore” del nostro mondo del lavoro. Anche laddove facevamo meglio della Spagna, ovvero tra i diplomati a più di 5 anni dalla fine degli studi, ora siamo stati superati.
Anzi, è proprio tra chi ormai ha finito di studiare da tempo che non ci sono stati miglioramenti. Come a dire che chi ha perso il treno durante la crisi, non è più riuscito a riagganciarlo. Per loro, nessuna ripresa.
Ma c’è diplomato e diplomato. Va decisamente peggio a chi ha un diploma “generico”, ovvero non professionale. Tra i primi, a 3 anni dalla fine degli studi solo il 36,5% lavora, mentre tra i secondi il 49,4% è occupato. Dopo i 5 anni le percentuali salgono, rispettivamente, al 60,5% e il 69,7%.
Col passare del tempo, il divario in Europa si fa più grave per i diplomatici generici. A più di 5 anni dall’uscita da scuola, il gap con i coetanei europei è più del doppio rispetto a quello dei laureati. E chiaramente non si tratta semplicemente del fatto che chi termina un liceo magari va a studiare all’università. Quello accade, e in misura molto maggiore, anche in Francia, Germania, Spagna, ecc.; eppure l’occupazione dei diplomati in questi Paesi è maggiore.
No, si tratta in gran parte dei casi di un annegamento nel mare magnum dei NEET, coloro che non studiano e non lavorano. Questi dati ci dicono una serie di cose sul mondo del lavoro soprattutto giovanile. Innanzitutto il luogo comune secondo cui non vale la pena laurearsi, perché “il piastrellista, l’antennista, l’idraulico lavorano e guadagnano, mentre quelli che si sono fatti laurea e master stanno a spasso”. Volete la verità? È una bufala, nient’altro che una fake news.
In Italia chi ha una laurea lavora sì un po’ meno dei coetanei stranieri e trova un’occupazione dopo, ma di certo si trova in condizioni migliori di chi invece si è fermato al diploma. Anche perché, se da un lato ci sono appunto piastrellisti, idraulici e operai specializzati, dall’altro c’è anche un sacco di gente che non ha alcuna specializzazione da spendere.
E questo perché, e questo è un altro punto fondamentale, c’è differenza tra il fermarsi ad un diploma generico, senza proseguire con l’università, e invece conseguirne uno professionale.
Eppure, secondo i dati del MIUR, coloro che scelgono di iscriversi ad una scuola professionale sono calati dell’8% nell’ultimo decennio, passando dal 22% al 14% circa. Il problema è che non si investe per incentivare i 14enni (e le loro famiglie) ad avviarsi verso l’acquisizione di competenze concrete, né per sconfiggere lo stereotipo che vede queste scuole come ricettacoli di piccoli delinquenti svogliati, o giù di lì. Perché, a torto o a ragione, è questa l’immagine che si è andata diffondendo.
L’alternanza scuola-lavoro ha interessato tutti, a prescindere dal fatto che nei territori vi fossero aziende che potevano formare gli studenti in professioni che poi questi avrebbero effettivamente potuto svolgere. E a prescindere dal fatto che molti di questi, in realtà, sarebbero poi andati all’università.
Quello che forse manca è una formazione mirata, realmente professionalizzante, per chi è intenzionato a finire gli studi a 19 anni. Cioè coloro che, oggi, appaiono sempre più come invisibili figli di un Dio minore.
dal web di Antonio Gentile