Stime negative per l’Italia per quanto riguarda l’economia. Quest’anno il divario di crescita rispetto alla media della zona euro sarà di un punto percentuale: 1,1% contro 2,1%. Nel 2019 sarà dello 0,7%: 1,2% contro 1,9%. Nel 2020 sarà dello 0,4%: 1,3% contro 1,7%. Il secondo Paese della zona euro a crescita più bassa è il Belgio (1,5%) quest’anno, l’anno prossimo (sempre 1,5%) e anche nel 2020 (1,4%). Nei tre anni la Germania crescerà dell’1,7%, dell’1,8% e dell’1,7%. Francia: 1,7%, 1,6% e 1,6%. Spagna 2,6%, 2,2%, 2%.
Tagliate stime di crescita. La commissione europea ha ridotto la stima di crescita del Pil dell’Italia nel 2019 portandola da 1,3% (stima di metà luglio) all’1,2%. Nel 2020 si prevede +1,3%. Il governo prevede per l’anno prossimo +1,5% e per il 2020 +1,6%. L’Italia, quindi, si conferma ultima per crescita in tutta Europa sia per il 2018 che per il 2019 e il 2020.
Rischi per le banche. «In alcuni Paesi dell’eurozona altamente indebitati, soprattutto in Italia, il circolo vizioso tra banche e debito sovrano potrebbe riemergere in caso di dubbi sulla qualità e la sostenibilità dei conti pubblici, che in un ambiente di riprezzamento complessivo dei rischi e di un aumento dei costi di rifinanziamento, potrebbe sollevare preoccupazioni di stabilità finanziaria e pesare sull’attività economica». Così le previsioni d’autunno Ue. Tra gli altri rischi negativi per l’economia segnalano la guerra commerciale Usa-Cina e la Brexit. «In Europa», scrive inoltre il responsabile della Dg Ecfin della Commissione Ue Marco Buti nella prefazione alle previsioni d’autunno, «l’incertezza sulle previsioni dei conti pubblici in Italia ha portato a più alti interessi di spread, e l’interazione tra il debito sovrano con il settore bancario è ancora una preoccupazione». Allo stesso tempo, però, sottolinea il documento di Bruxelles, nonostante l’aumento significativo dello spread per l’Italia a causa della situazione di bilancio, «per ora non è stato osservato nessun contagio ad altri stati membri».
«Non si torna a crescere continuando a usare la zappa quando tutti gli altri hanno il trattore da un decennio». Abbiamo preso questa citazione da un articolo di Thomas Manfredi, statistico economico nel Direttorato di Politiche del Lavoro dell’ Ocse, che ha pubblicato su Strade. Ci sembra riassuma alla perfezione uno dei problemi che assillano l’ Italia: la crescita della produttività del lavoro, cioè il valore aggiunto per ora lavorata, è la più bassa d’ Europa.
Ieri l’ Istat ha aggiornato i dati sulla produttività e ha confermato una tendenza ormai tristemente consolidata: nel periodo 1995-2017 quella del lavoro è aumentata ad un tasso medio annuo dello 0,4% mentre quella del capitale, misurata dal rapporto tra il valore aggiunto e l’ input di capitale, è diminuita dello 0,7%. La produttività totale è risultata essere un piatto 0%.
Rimane il fatto che in Italia con i suoi 20 anni di euro , stà facendo i conti con la regressione , perché da quando comparve come moneta unica e quindi da quando cominciò a materialmente circolare e sostituire le monete nazionali, le cose non vanno per il verso giusto. Dopo 20 anni appunto è possibile la risposta almeno ad una parte della domanda: è stata cosa buona o non buona per le tasche degli europei?
Studio ed elaborazione dei dati dicono che il potere d’acquisto dei redditi (quindi redditi in teoria depurati dell’effetto inflazione) è cresciuto nei 20 anni in questione dell’ 11,3 per cento nell’area euro. Quindi il dato dice che con l’euro come moneta i redditi reali possono crescere e infatti sono cresciuti anche se non in misura travolgente.
Cresciuto il potere d’acquisto dei redditi nei 20 anni dell’euro ma non dovunque e non in maniera uniforme. Per una Francia che ha visto il potere d’acquisto salire del 21 per cento, ecco una Germania dove la percentuale si dimezza quasi allo 11, 8 per cento. C’è poi la Spagna dove il potere d’acquisto dei redditi segna un rialzo nei 20 anni del 15 per cento.
E l’Italia? L’Italia è l’unico grande paese d’Europa, l’unica grande economia dell’area euro che dal 1999 al 2018 ha visto il potere d’acquisto dei suoi redditi calare: meno 3,8 per cento.
Dunque e con tutta evidenza non è questione di euro. Non è l’euro il problema, non è l’euro il colpevole, non è l’euro la malattia. La malattia è l’Italia. L’Italia economica ed amministrativa, il sistema socio economico italiano è l’unico dove si produce un calo del potere d’acquisto in presenza dell’euro.
Scagionato l’euro dall’accusa di ammalare le nostre tasche, a chi e a cosa imputare il reale e incontestabile impoverimento degli italiani? Si chiama produttività, da noi è costantemente più bassa che altrove. da almeno trenta anni. Quindi non è questione di colore dei governi, in 30 anni hanno governato più o meno tutti e la produttività è sempre rimasta nana. Anche il recente governo del cambiamento su questo punto ha scelto di non cambiare niente.
La produttività italiana è bassa perché bassa è la capitalizzazione delle aziende e perché la piccola dimensione aziendale non consente di investire quanto si dovrebbe in ricerca e tecnologia. Produttività bassa perché le infrastrutture sono poche e vecchie o latitano, a partire dalle connessioni veloci via web. Produttività bassa perché la Pubblica Amministrazione è ostacolo e zavorra. Produttività bassa perché la politica impone dazio, se non pizzo, alle aziende sotto forme varie di rallentamenti, compensazioni sul territorio, regalie, aumenti dei costi…
Produttività bassa perché bassa è la qualificazione professionale, e non solo, di coloro che escono dal circuito scuola-università. Produttività bassa per uno scivolamento progressivo della sindacalizzazione verso forme di mini lobbysmo che avvolgono l’intero sistema in una rete.
Produttività bassa per tanti motivi, la gran parte dei quali godono del favore d’opinione. Produttività bassa, cioè un paese che in sostanza sta ancora affettando fette robuste di prosciutto, ancora non è arrivato all’osso anche se in quella direzione marcia, ma soprattutto un paese che si cura, si affanna, si ingegna, si infervora a distribuire fette del taglio, a toglierne qua, metterne là…pensando in grande e comune coro che non sia un suo problema crearne altra di ricchezza.
Un europa a senso unico, ma con direzione a Berlino, Parigi, Madrid.
di Antonio Gentile