di Antonio Gentile : www.ilpopolo.it
Dati allarmanti arrivano dalle nuove indagini che ogni anno autorevoli società fanno dando un aggiornamento della situazione che accade in italia, con i giovani laureati in medicina e informatica; la cosiddetta “fuga di cervelli”.
Il nostro Paese spende circa il 4% del Pil (stime Ocse) per l’intero ciclo di istruzione dei suoi cittadini: quasi 69 miliardi di euro, pari a circa 20 volte la famigerata Imu-Tasi sulla prima casa abolita qualche anno fa. In passato qualcuno ha indicato in circa 100mila euro la spesa pubblica complessiva per l’istruzione di un o una giovane che conclude l’università. Bene, anzi malissimo: perché il quinto Rapporto Istat sul benessere equo e sostenibile, presentato qualche mese fa, porta pessime notizie.
Per la prima volta il “Bes” – che analizza l’andamento della qualità della vita dei cittadini e dell’ambiente – include tra i suoi indicatori la capacità del Paese di trattenere i talenti. In che modo? Utilizzando, come indicatore di mobilità dei laureati, il tasso migratorio specifico: ossia il rapporto tra il saldo migratorio dei laureati e il corrispondente stock di residenti con riferimento ai soli italiani in età 25-39 anni, fascia di età in cui il potenziale innovativo dei laureati è particolarmente elevato.
Che cosa racconta il Rapporto Istat? Che nel 2016 il saldo migratorio dei giovani laureati italiani non solo è negativo, con la perdita di circa 10mila “cervelli”, ma rappresenta quasi il doppio di quello registrato nel 2012: il rispettivo tasso risulta pari a -4,5 per mille laureati residenti (era -2,4 per mille quattro anni prima). Non solo: come sottolinea su Neodemos le ricercatrici dell’ Istat, «alla lieve ripresa economica partita nel 2015 e confermata nel 2016 (con un aumento del Pil rispettivamente pari a +0,8 e +0,9%) non corrisponde una inversione nelle tendenze migratorie, e anzi rispetto al 2015 il tasso è in ulteriore diminuzione». Il nostro Paese vede così proseguire la perdita di giovani altamente qualificati, con competenze specialistiche e skill avanzati.
Tutte le regioni hanno un saldo migratorio di laureati italiani negativo a livello internazionale, comprese le brillanti Lombardia ed Emilia-Romagna: queste ultime infatti conquistano terreno in termini assoluti solo se alle “perdite” verso l’estero si aggiungono i “guadagni” legati alla mobilità interregionale di laureati (quelle dal Sud al Nord). In Basilicata, Calabria e Sicilia il quadro è decisamente negativo: alle migrazioni verso l’estero, che comportano un saldo negativo tra il -4 e il -7 per mille, si sommano quelle verso altre regioni d’Italia fino ad arrivare a un tasso migratorio tra -26 e -28 per mille. I laureati inoltre in termini percentuali emigrano più della media degli italiani, che comunque non sfigurano (dal 2008 al 2016 sono stati ben 623.885 i nostri connazionali espatriati).
Che cosa significa tutto ciò per un’Italia che investe il 4% del Pil in istruzione ma è incapace di trattenere i talenti che ha formato? «Questi dati ci restituiscono il quadro di un Paese nel quale il capitale umano maggiormente qualificato, formato grazie a un cospicuo un investimento dello Stato e delle famiglie, che potrebbe essere motore di innovazione e portatore di creatività, viene ad essere in parte perduto».
Una maggior disponibilità di dati potrà dire se e in che misura questa perdita è compensata dagli ingressi di laureati stranieri, ma le stime più recenti fornite dall’indagine Istat sulle forze lavoro non sono incoraggianti: dopo una lieve crescita, tra il 2015 e il 2016 il numero di giovani laureati stranieri residenti in Italia non ha presentato variazioni significative. Un pessimo segnale sul fronte dell’innovazione e della competitività del Paese, ma anche su quello del gettito fiscale e della sostenibilità del sistema previdenziale.
Due parole sul Sud, doppiamente colpito dalla fuga di cervelli (sia al Nord che all’estero). «È soprattutto nel Mezzogiorno che la perdita di talenti è particolarmente critica e rischia di influenzare negativamente il benessere e la sua sostenibilità – concludono le due ricercatrici Istat – : essa infatti non è solo un sintomo di una carenza strutturale di adeguate opportunità lavorative, ma si traduce a sua volta nel perdurare di uno stentato sviluppo del tessuto produttivo».
Secondo i dati elaborati dal centro studi Idos (organizzazione indipendente sponsorizzata tra gli altri da Unar, Caritas e Chiesa Valdese) nel 2017 se ne sono andati dall’Italia circa 285 mila cittadini. È una cifra che si avvicina al record di emigrazione del Dopoguerra, quello degli anni ‘50, quando a lasciare il Paese erano in media 294 mila Italiani l’anno. L’Ocse segnala come l’Italia sia tornata ai primi posti nel mondo per emigrati, per la precisione all’ottavo, dopo il Messico e prima di Vietnam e Afghanistan.
Del fenomeno dell’espatrio degli italiani, ha parlato a inizio luglio il presidente dell’Inps, Tito Boeri, presentando il rapporto annuale dell’Istituto. “Nel confronto pubblico degli ultimi mesi si è parlato tanto di immigrazione e mai dell’emigrazione dei giovani, del vero e proprio youth drain cui siamo soggetti”, ha detto Boeri, “la fuga all’estero di chi ha tra i 25 e i 44 anni non sembra essersi arrestata neanche con la fine della crisi. Nel 2016, l’ultimo anno per cui sono disponibili i dati dell’Anagrafe italiani residenti all’estero, abbiamo perso altre 115.000 persone, l’11% in più dell’anno precedente. E potrebbe essere una sottostima”. È proprio sull’ipotesi di sottostima a cui ha accennato Boeri che hanno lavorato i ricercatori dell’Idos. “I dati ufficiali, quelli dell’Istat”, spiega il presidente Luca Di Sciullo, “si riferiscono alle cancellazioni anagrafiche registrate dall’Aire, ma la cancellazione dal comune di residenza non è un obbligo, molti italiani si trasferiscono senza spostare la residenza, anche se poi la fissano nel nuovo Paese”. Per ottenere dati più realistici si è guardato agli archivi dei principali paesi d’accoglienza, relativi ad adempimenti obbligatori come la registrazione di residenza o la copertura previdenziale. Mettendo insieme questi dati viene fuori che la cifra registrata dall’Istat, circa 114 mila italiani espatriati nel 2017 (in linea con il 2016) va moltiplicata per 2,5, portando il dato a 285 mila persone, un flusso che è aumentato del 50% negli ultimi 10 anni.
Dal lato dei rimpatri, l’incidenza negli ultimi anni è scesa a meno di un terzo, circostanza che, se abbinata al recente calo dell’immigrazione (16 mila sbarcati nel primo semestre 2018, contro i 76 mila del primo semestre 2017), e al costante calo della natalità, è destinata, a impoverire il Paese e metterne sotto pressione il sistema previdenziale.
I nuovi emigranti non aderiscono al cliché anni ‘50 del bracciante del Sud che lascia il paesello con la valigia di cartone. Oltre la metà espatria dalle regioni del Nord; circa un quarto dal Centro, mentre quelli che espatriano dal Sud e dalle Isole sono meno di un quarto del totale. Il grosso dell’emigrazione dal Sud, come indica il rapporto Svimez (articolo sopra), si trasferisce nelle regioni del Centro Nord italiano.
Chi espatria, va principalmente in Europa (Germania e Gran Bretagna in testa). E se fino al 2002 il 51% degli emigrati con più di 25 anni aveva al massimo la licenza media, ora quasi un terzo sono laureati. Questa “fuga di cervelli” per il Paese rappresenta una perdita in tutti i sensi. Ogni emigrato istruito è infatti come un investimento che se ne va: mediamente 164 mila euro per un laureato, 228 mila un dottore di ricerca, secondo i dati dell’Ocse. Circostanza che però non ne fa necessariamente i candidati per lavori più qualificati.
Secondo il “Rapporto italiani nel mondo” della Fondazione Migrantes, la maggior parte continua a trovare impiego in occupazioni poco qualificate, ristoranti e pizzerie in cima alla lista. celta comunque preferibile a quella di rimanere con le mani in mano, o accettare quei lavori a intermittenza e sottopagati che nel mercato del lavoro italiano sembrano essere diventati la principale prospettiva per i giovani.
La speranza è quella che almeno i nuovi giovani abbiano più interesse a rimanere in Italia, ma tocca allo stato coinvolgerli e stimolarli una volta che i nostri giovani si laureano, trovare il modo di trattenerli e dare loro una possibilità dare una prospettiva di futuro migliore con un buon lavoro, o che almeno sia dignitoso.
di Antonio Gentile