Per Fini si prospetta la seconda udienza del processo nel quale lo vede imputato per riciclaggio insieme con i Tullianos, ovvero la compagna Elisabetta Tulliani, il fratello Giancarlo (ancora a Dubai) e il padre Sergio. Al centro della vicenda processuale c’ è quella maledetta, o in fin dei conti anche benedetta, casa di Montecarlo lasciata in eredità dalla contessa Annamaria Colleoni ad Alleanza nazionale, e che sarebbe stata acquistata nel 2008 da Giancarlo Tulliani attraverso società off-shore con i soldi dell’ imprenditore Francesco Corallo, accusato di associazione a delinquere finalizzata al peculato, riciclaggio ed evasione fiscale.
La storia, mette in fila anomalie di ogni genere, dalle «gravissime interferenze» sui Monopoli alle «inverosimili sottrazioni» alle casse dello Stato, fino alle norme pro-Atlantis approvate, «sintomatiche di condizionamento della vita parlamentare in ragione di flussi di denaro di grande consistenza». Una storia dalle «implicazioni inquietanti», e che al giudice sembra sia stata svelata solo in minima parte, potendo riservare «imprevisti» e sviluppi «piuttosto tumultuosi». Quanto basta per togliere la decantata «serenità» all’ ex leader, già scottato nell’ amor proprio, ora anche indagato.
E sempre più nel fuoco della procura.
Gianfranco Fini torna dunque alla sbarra, ci va da privato cittadino al di sotto di ogni sospetto e la scena sarà tutta per lui, poiché nella prima udienza la posizione di Corallo è stata stralciata per banali ragioni burocratiche. A un primo sguardo sembra la notizia più banale del momento: cosa vuoi che gliene freghi, di Fini, all’ Italia populista che sta fragorosamente litigando con la Francia in vista delle elezioni europee all’ Italia del reddito di cittadinanza e di quota cento all’ Italia che ha annegato nel fiele il ricordo di Mario Monti e del suo vampiresco governo di tecnocrati all’ Italia che non ha deciso in che modo storicizzare Silvio Berlusconi, l’ uomo che ha fatto e disfatto la fortuna di Gianfranco.
Eppur si deve indulgere una volta ancora nell’ esercizio retorico: che cosa ne sarebbe, oggi, di Fini, se non fosse stato Gianfranco Fini? È consuetudine rispondere che avrebbe avuto la nazione in mano, come erede naturale del Cavaliere, in quanto leader riconosciuto di tutte le destre italiane, sdoganato dai poteri neutri e anagraficamente destinato a una successione per affiancamento. Invece è andata come sappiamo: la vanità lo ha perduto, insieme con la fretta e i cattivi consigli di Giorgio Napolitano che dal Quirinale, nel famigerato 2011, aveva stabilito di rovesciare il tavolo delle cene eleganti berlusconiane per vie parlamentari e con la complicità dell’ ex padroncino di An. Uno spreco indicibile di energie e velleità che ha subito preso la forma dell’ incubo.
Nel Dna di Gianfranco Fini, del quale è giusto presumere l’ innocenza fino al terzo grado di giudizio ed è lecito perfino augurarsi l’ assoluzione, era già tutto scritto: il fenotipo dell’ oratore almirantiano privo dei pochi ma chiari ideali del maestro; il genotipo del badogliano che aveva sgozzato il post fascismo missino sull’ altare di Fiuggi nel 1995; il carattere arcitaliano del gregario in perenne attesa d’ un momento propizio per arraffare il suo posto al sole. Quel posto fu la presidenza della Camera dei deputati, guadagnata dopo il voto brillante del 2008 e utilizzata come un palcoscenico in cui recitare lo spettacolo della destra che gioca a fare la sinistra in ritardo fra gli applausi cinici dei nemici di sempre.
dal web editoriale de Il Popolo.
Ma, ancor prima di tutto questo, Gianfranco Fini è stato il comandante delle forze di polizia a Genova nel 2001, durante i tragici giorni del G8. Era il vice del presidente del consiglio, Silvio Berlusconi.
Amnesty International nel suo rapporto su Genova ha scritto: “Nel luglio del 2001 vi fu in Italia una violazione dei diritti umani di proporzioni mai viste in Europa nella storia recente”.
Quasi nessuno ne parla.