Tutto a volte si ripete ed anche come nel Gattopardo, sembra quasi di rivivere le scene di allora, quasi un pre-veggente romanzo, “Il Gattopardo”. Come negare che quelle due frasi, quella del principe di Salina e del nipote Tancredi siano la plastica rappresentazione dell’Italia di oggi, quella che si vive e si patisce? Sublime congiunzione del peggio del “nuovo” che si coniuga con il peggio del “vecchio”.
Lo conosciamo tutti, vero quel finale de Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa dove il principe Fabrizio di Salina enuncia la sua visione del mondo: quello in cui ha vissuto; quello in cui vivrà, con l’arrivo di Garibaldi e dei suoi “mille” che annunciano il nuovo regime (i Savoia) e il dissolvimento del vecchio (i Borboni). Lo conosciamo e lo possiamo sillabare: “Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore continueremo a crederci il sale della terra”.
Conosciamo bene (e spesso ci accade di pronunciarla) anche l’affermazione di Tancredi, il nipote del principe di Salina: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”.
Ci si concede una digressione (un’integrazione, a ben vedere). Si faccia un salto al 1971, quando Leonardo Sciascia pubblica “Il contesto”. Da brivido quel passaggio dove bonariamente il ministro dell’Interno redarguisce e istruisce l’ispettore Rogas, uomo di tenace concetto (e la pagherà cara):
“…Si può condensare in una battuta: il mio partito, che malgoverna da trent’anni, ha avuto ora la rivelazione che si malgovernerebbe meglio insieme al Partito Rivoluzionario Internazionale; e specialmente se su quella poltrona – indicò la sua dietro la scrivania – venisse ad accomodarsi il signor Amar. Ora la visione del signor Amar che da quella poltrona fa sparare sugli operai in sciopero sui contadini che chiedono acqua, sugli studenti che chiedono di non studiare: come il mio predecessore buonanima, e anzi meglio; questa visione, debbo confessarlo, seduce anche me”.
Seduzione amarissima, evidentemente. Per quell’opposizione che si fa oppressione peggiore di chi sostituisce; e per quel passaggio fugace: operai e contadini in sciopero per i loro diritti; e studenti che al contrario, lo fanno per derogare al loro dovere: quello di studiare.
Per comprendere l’Italia di oggi e di ieri, fondamentali sono tre romanzi, spesso traditi e sfregiati da scolastica lettura: I promessi sposi di Alessandro Manzoni; I viceré di Federico De Roberto; I vecchi e i giovani di Luigi Pirandello. Una volta letti ci si può risparmiare una buona vagonata di saggi e di dotti studi sul Risorgimento italiano e gli anni successivi.
Quattro, erano i tre moschettieri di Alexandre Dumas; così per i tre fondamentali romanzi. Perché è giusto aggiungere Il Gattopardo.
Si torna così all’inizio di questo strologare. Pubblicato nel 1958 non ha avuto vita facile. E si capisce. Il principe contempla “in perpetuo scontento” la “rovina del proprio ceto e del proprio patrimonio senza avere nessuna attività e ancor minore voglia di porvi riparo”. Emblematico il malumore provocato da una minuscola, invisibile ai più, macchiolina di caffè sul panciotto; e sono “particolari”, come quel portasigari compulsato con nervosismo, o “il solito bigliettino color di mammola”: metafora di una classe al potere che si sgretola e frantuma, per cedere il posto a “nuovi/vecchi venuti che cambiano d’accento: la parlata siciliana è sostituita da quella savoiarda, cambiano i colori delle divise, ma arroganze, prepotenze, supponenze, ignoranze, miopie, ingordigie, non mutano; si sovrappongono.
E’ qui la chiave della lettura “provvidenziale” e ipocritamente consolatoria che si fa de I promessi sposi? E’ per questo che si sorvolano De Roberto e Pirandello, facendosi alibi del loro esser poderosi, simili, per prolissità, ai classici russi? E per Il Gattopardo di Lampedusa? Questo no, è tutto sommato un agile libretto, lo stesso numero di pagine di un moderno romanzo. Eppure…
A suo tempo, Il Gattopardo, viene autorevolmente stroncato. Elio Vittorini lo rifiuta ben due volte: da consulente editoriale di Mondadori, e da consulente editoriale di Einaudi. Nella lettera dove motiva il suo NO, si legge: “…per più di una buona metà, il romanzo rasenta la prolissità nel descrivere la giornata del ‘giovin signore’ siciliano (la recita quotidiana del rosario, la passeggiata in giardino col cane Bendicò, la cena a Villa Salia, ‘il salto’ a Palermo dall’amante…”. Pollice verso da Alberto Moravia, che da critico cinematografico, esprime negativo giudizio sul film che ne ricava Luchino Visconti: “Solo lui, comunista aristocratico, poteva con tanta sottigliezza dosare il grado di scetticismo e di poetica nostalgia del principe di fronte alle questioni sociali e politiche dell’epoca”. Il figlio adottivo di Lanza Tomasi, Gioacchino, ricorda il giudizio sferzante dato da Palmiro Togliatti, confortato da Mario Alicata, eminenza grigia della cultura “autorizzata” dal PCI. Su Rinascita e su Il Contemporaneoi due sparano tiro alzo zero: Il Gattopardo è espressione di un’ideologia reazionaria, che non ha compreso nulla del Risorgimento, della rivoluzione proletaria, della lotta di classe, di Antonio Gramsci.
In certa misura, Togliatti e Alicata non sbagliano. Il romanzo non è libro di “servizio”. Tuttavia si assiste a un curioso, “divertente” contrordine compagni. Accade che Il Gattopardo venga tradotto in Francia, e l’allora autorevolissimo e comunistissimo Louis Aragon ne parli benissimo: un capolavoro, senza “se”, senza “ma”. Togliatti capisce l’antifona, e fa sua la tesi aragoniana, secondo la quale Il Gattopardo è il romanzo del capitalismo destinato a essere seppellito dall’avanzata delle masse proletarie guidate dall’avanguardia rappresentata dal Partito. Alicata fa di più: nel 1961 firma la prefazione all’edizione russa: ne elogia la finezza e lo spessore drammatico; concedendosi tuttavia una stoccata: “Nella nostra opinione sul piano storico il romanzo non è molto riuscito”.
Sono persone di cultura liberale a salvare Il Gattopardo e a consentire che sia conosciuto. Elena, una delle figlie di Benedetto Croce, trasmette il dattiloscritto a Giorgio Bassani, consulente della Feltrinelli. Bassani non è imbevuto di “cultura” e di ideologia comunista, ma alla Feltrinelli il suo parere conta e pesa. Carlo Bo ne scrive in termini entusiastici sul Corriere della Sera; il romanzo vince il premio Strega 1959; viene tradotto in tutto il mondo. Con Il dottor Zivago, un long seller che per Feltrinelli resta ineguagliato.
Pubblicato sessant’anni fa, sarebbe stato logico che la Feltrinelli organizzasse per l’occasione una quantità di celebrazioni e “ricordi”; giornate di studio, eventi…
Intervistato da Il Messaggero Gioacchino dice: “Feltrinelli non vuole celebrazioni. Non le ha fatte e non si faranno…”. Come mai? “Sono portato a pensare che Feltrinelli non celebri i 60 anni di questo libro, celebrato in tutto il mondo, per una sorta di resistenza pratica. Perché loro credono che può ancora esistere una letteratura pedagogica di sinistra, e che funzioni solo quella. ‘Il Gattopardo’, che alla Feltrinelli ha dato successo e denaro, non rientra in questo schema. E del resto, è un libro terribile. E’ l’opera di uno scettico, non di un progressista mainstream”.
Giusto ascoltare i chiamati in causa. L’editore si dice dispiaciuto per le parole di Lanza Tomasi, ce preferisce considerare “frutto di una polemica estemporanea piuttosto che considerazioni di natura editoriale”. Precisa “quanto sia intenso, oltre che ampiamente noto, il legame strettissimo e continuo tra Feltrinelli e ‘Il Gattopardo’, valorizzato “in ogni forma come uno dei capolavori della letteratura internazionale…un romanzo affatto dimenticato con innumerevoli occasioni di promozione e celebrazione organizzate dalla casa editrice e dal Gruppo Feltrinelli, in Italia e nel mondo. Ricordiamo qui solo le letture di Stefano Benni organizzate lo scorso anno nella nuova sede della Fondazione Feltrinelli e aperte alla città e alle scuole”.
Già: il sessantennale? Ricordare un ciclo di letture del rispettabilissimo Stefano Benni l’anno passato, è obiettivamente un po’ poco. E non fuga il sospetto a cui Gioacchino dà corpo: “Il Gattopardorimane un romanzo scomodo, dirompente, micidiale perché si innesta nella mancata metabolizzazione del Risorgimento, la cui parabola conduce al fascismo, perché, diciamolo francamente, i Savoia non erano affatto per la democrazia. Il Risorgimento ha spaccato l’Italia e la frattura tra Nord e Sud è stata imperante anche elle ultime elezioni politiche. Il successo del libro viene da questo: sono cadute le scaglie dagli occhi della gente distrutta che ha pesato: ‘ avevano detto che questo era il progresso, ma invece siamo stati fregati’”.
Nell’intervista al Messaggero che ha innescato la polemica, Gioacchino a proposto dell’autore de Il Gattopardo, dice: “Credeva nello stato di diritto. Se a palazzo Chigi, al posto di Di Maio e di Salvini, ci fossero Montesquieu e Einaudi, lui applaudirebbe dall’aldilà. Ma non perché antico o vecchiotto, perché moderno”.
Tomasi di Lampedusa figlio dell’Encyclodédie di Denis Diderot ei Jean-Baptiste Le Rond d’Alambert… Ecco che, come uno squarcio di luce, tutto si capisce, tutto si comprende…
dal web di Antonio Gentile