“Al conte Giacomo Leopardi recanatese filologo ammirato fuori d’Italia scrittore di filosofia e di poesie altissimo da paragonare solamente coi greci che finì di XXXIX anni la vita per continue malattie miserissima fece Antonio Ranieri per sette anni fino all’estrema ora congiunto all’amico adorato MDCCCXXXVII“.
Questa l’iscrizione sulla lapide a memoria di Giacomo Leopardi fatta porre dall’amico Antonio Ranieri a Napoli nella chiesa di San Vitale a Fuorigrotta, colà sepolto all’alba del 16 Giugno 1837.
Quando si tenta di circoscrivere i grandi protagonisti della letteratura a delle piccole definizioni, si finisce per far un torto enorme alla loro complessità di pensiero o alle sfumature del loro stile. Un esempio? Leopardi, il “Materialista Ateo”. E non bastavano la natura ed il “definizionismo” dei posteri a colpirlo. Oggi si scopre che un’altra ingiustizia si è perpetrata sulla sua vita. Anzi, sulla sua morte.
E purtroppo quest’ingiustizia si è consumata proprio a Napoli, nella città in cui Giacomo Leopardi ha trascorso le sue ultime ore di vita, in compagnia dell’amico storico Antonio Ranieri, autoproclamatosi poi unico conoscitore delle vicende che videro Leopardi abbandonare questa vita, per entrare di diritto nella storia e nella leggenda. Le ombre che si allungano sulla morte di Leopardi, partono tutte dall’enigmatica figura del suo amico napoletano.
Leopardi conosce Antonio Ranieri a Firenze nel 1831. Gli bastano un paio d’anni per fidarsi di lui a tal punto da comunicare ai suoi genitori che si sarebbe trasferito a Napoli per qualche tempo, ospite del suo amico, per provare se il clima salubre meridionale avrebbe potuto giovare in qualche maniera alla sua salute cagionevole.
Nel 1833 dunque Leopardi è a Napoli, e abita in Via San Mattia n.88, nel Palazzo Berio . Riceve spesso le visite festose dei fratelli di Antonio, godendo di quell’allegria di famiglia a lui molto poco familiare. Napoli strega Leopardi. Subito. Le persone, il chiasso, il vociare, spingono il letterato a buttarsi nella mischia.
Quando però le condizioni di salute di Giacomo peggiorano, il cognato di Antonio, Giuseppe Ferrigni, offre un suo appartamento a Torre del Greco, dove l’aria gli pareva fosse migliore. In realtà saranno mesi terribili. Leopardi confessa al padre in una lettera di aver sofferto il freddo, un forte dolore articolare alle ginocchia, e febbre alta, senza potersi curare. Ma potrà dirsi salvo dal colera che si supponeva cominciasse a scemare, dopo il grande contagio a Napoli.
Il colera. In realtà Leopardi sapeva bene che il colera a Napoli non era stato debellato affatto, ma in seguito ad un nuovo aggravarsi della salute di Giacomo, Antonio decide che è meglio far ritorno in città e barricarsi in casa. Siamo nel 1837, l’anno della morte del poeta di Recanati.
Il referto ufficiale parla di idropisia polmonare, (l’idropisia consiste nell’accumulo di liquidi nei tessuti interni. Non è una vera e propria malattia, ma un sintomo che accompagna altri problemi di salute, come le malattie dell’apparato circolatorio, è accumulo di liquidi nel peritoneo -la membrana che ricopre gli organi che si trovano a livello del torace), e di un’avvenuta sepoltura nella Chiesa di San Vitale a Fuorigrotta. Il corpo di Leopardi verrà poi spostato nel 1939 nel Parco Vergiliano, dove si ritiene sia oggi. Ma è davvero così? Molte ricerche ormai convergono sul no. Non solo Leopardi non sarebbe mai stato sepolto a San Vitale, ma le cause della sua morte andrebbero imputate al colera.
Tutto ruota intorno al tentativo del suo amico Antonio Ranieri di occultare la realtà degli avvenimenti, per fare in modo che non si ritenesse Giacomo potesse esser morto di colera. La mattina della sua morte fa piazzare una carrozza davanti all’abitazione, e la tiene lì tutto il giorno, per far ritenere a vicini e testimoni che i due amici fossero nuovamente in procinto di partire per un viaggio di piacere. Nel frattempo Leopardi era in casa a lottare tra la vita e la morte. Il dottore consultato per l’aggravarsi delle sue crisi respiratorie consigliò di chiamare immediatamente un prete per l’estrema unzione. Il prete arrivò, ma troppo tardi. Nella versione di Antonio, il prete arrivò in tempo per far accogliere l’anima di Giacomo al Signore, dopo che il medico aveva firmato un certificato che attestava la morte di Leopardi non fosse avvenuta per colera.
Le prove della menzogna di Ranieri?
Nel 1900 fu disposta la riesumazione. Nella tomba di Leopardi a San Vitale, furono ritrovati solo due femori, un mucchietto d’ossa minori consunte, e basta. Mancavano il teschio e la colonna vertebrale, guarda caso le uniche ossa che avrebbero potuto dimostrare con assoluta certezza che quel corpo non apparteneva a Giacomo, perchè il teschio del suo sostituto poteva essere confrontato con il calco mortuario di Giacomo, e trovare in poche ore chi avesse due gobbe era decisamente difficile. Persino i due femori dimostravano non si trattava di lui: troppo lunghi per la sua altezza. Nonostante questo le sue spoglie furono trasferite in pompa magna nel 1939 nel Parco Vergiliano, come se nulla fosse. A questo si aggiunga che recentemente, nel registro della Chiesa SS. Annunziata a Fonseca di Napoli si dice a chiare lettere che Leopardi giace nel Cimitero delle Fontanelle (fosse comuni). Nel 2004 è stato chiesto un confronto tra le ossa ritenute del Leopardi ed i discendenti del suo ceppo familiare: negato.
Insomma, un vero e proprio caso all’italiana, fitto di misteri, silenzi, carte false, testimoni compiacenti. Il direttore d’orchestra di questa sinfonia di falsificazioni fu Antonio Ranieri, l’amico di Giacomo. Perché volle cancellare la parola colera dalla morte del poeta? Non si sa. Di certo nutriva una morbosa gelosia nei confronti dell’amico di Recanati, tale da fargli avere in odio le sue passeggiate solitarie, inspiegabili a suo modo di vedere, specie quando Leopardi incrociava altri suoi amici letterati e con essi si intratteneva.
L’ostinazione con cui raccontò la morte di Leopardi a Napoli in tutt’altra maniera rispetto al vero storico potrebbe essere un tentativo di associarsi indelebilmente alla figura artistica di Giacomo, o di evitare la sepoltura nelle fosse comuni, per onorare l’amico in maniera più consona alla sua statura letteraria. Non lo sapremo mai. Ma in entrambi i casi, sembra proprio una scelta sbagliata.
di Maria Grazia lenti