IL TEMA che oggi desidero trattare è quello quanto mai attuale della povertà. C’è sempre stata da che esiste il mondo, ma oggi la società globale nella quale viviamo l’ha reso diverso da precedenti epoche ed è appunto questa diversità che dev’essere approfondita. Lo farò in modo simpatico e leggero, raccontando una storia del passato……
“I poveri erano così tanto poveri che presero la loro fame e la misero in bottiglia e se la andarono a vendere. Se la comprarono i ricchi, i ricchi che nella vita avevano mangiato di tutto, dal caviale ripieno all’ossobuco di culo di cane allo spiedo. Però la fame dei poveri in bocca non l’avevano assaggiata mai, così i ricchi se la comprarono. La pagarono bene e i poveri furono contenti e per un po’… per un po’ tirarono avanti. Poi i poveri tornarono ad essere poveri, così allora i poveri presero la loro sete e la misero in bottiglia e se la andarono a vendere. Se la comprarono i ricchi, i ricchi che nella vita avevano bevuto di tutto, avevano bevuto dal Brunello al Tavernello, però la sete dei poveri in bocca non gli era passata mai. Così allora i ricchi se la comprarono e la pagarono bene e i poveri ne furono felici. Per un po’ tirarono avanti. Ma poi i poveri tornarono ad essere poveri, più poveri di prima. Così allora i poveri presero la loro rabbia, che i poveri di rabbia ce ne avevano assai, ce ne avevano. Allora i poveri presero la loro rabbia la misero in bottiglia e se la andarono a vendere. Se la comprarono i ricchi. I ricchi che… sì, pure i ricchi un po’ nella vita erano stati arrabbiati, mica no! Ma erano piccole cose, conflitti generazionali, roba da ormoni, rodimenti di culo, insomma. Ma la rabbia, proprio la rabbia dei poveri i ricchi non l’avevano provata mai. Così allora se la comprarono e la pagarono anche bene. I poveri furono felici e per un po’ tirarono avanti.
Ma poi i poveri tornarono ad essere poveri. Allora i poveri si vendettero tutto, la coscienza di classe, la violenza, l’insubordinazione, la cultura, la musica, le parole, la letteratura, la memoria, tutto si vendettero i poveri, tutto. E i ricchi accumulavano. Nelle loro cantine i ricchi ormai avevano migliaia, milioni di bottiglie e accanto ai baroli muffiti, muffati, passiti, moscati ci stavano bottiglie e in quelle bottiglie ci stava tutta la cultura dei poveri, ci stava la rabbia dei poveri dai sanculotti fino ai braccianti di Di Vittorio nel foggiano, fino ai nuovi braccianti, i pummarò nell’Agropontino piuttosto che i braccianti rumeni, quelli che vanno a lavorare e a morire nei cantieri per dieci euro al giorno, ma anche quella povertà di tanta gente che non vive più, ormai sopravvive, pensionati, disoccupati e papà separati senza lavoro.
In quelle bottiglie, in mezzo alle altre bottiglie, nella cantina dei ricchi, ci stavano bottiglie piene dell’orgoglio dei poveri, dell’orgoglio dell’aristocrazia operaia che aveva fermato i tedeschi nel ’42, nel ’43, nel ’44 e nel ’45, l’aristocrazia operaia che aveva conquistato lo Statuto dei Lavoratori nel 1970, il superamento del cottimo, fino all’orgoglio dei lavoratori precari, che erano precari, però pure loro l’orgoglio ce l’avevano. In quelle bottiglie c’era di tutto, c’era lo stupore, la meraviglia dei poveri, degli zapatisti che circa sette anni fa, entrarono chi a cavallo, chi col somaro, la maggior parte a piedi a Città del Messico. In quelle bottiglie c’era tutta la cultura dei poveri, tutto dei poveri. I poveri tutto si erano venduti. E alla fine i poveri diventarono così tanto poveri che presero pure la loro povertà, la misero in bottiglia e se la vendettero. La comprarono i ricchi. I ricchi che nella vita tutto erano stati, fuorché poveri. E adesso volevano essere così tanto ricchi da possedere pure la miseria dei miseri. Allora quando i poveri diventarono così tanto poveri da non possedere più nemmeno la loro povertà, i poveri si armarono e non di coltello e forchetta bensì di fucili e pistole, perché la rivoluzione non è un pranzo di gala, la rivoluzione è un atto di violenza. Allora i poveri armati andarono fino al palazzo arrivarono al palazzo e lì c’era il podestà affacciato al balcone, alla finestra, il podestà serio che li guardava. I poveri erano armati ma rimasero fermi, immobili. Non fecero niente. Perché senza la rabbia, senza la fame, senza la sete, senza l’orgoglio, senza la coscienza di classe non si fa la rivoluzione.
Così allora il podestà scese in cantina e tra le tante bottiglie che aveva comprato dai poveri ne prese una, una soltanto, era la libertà, quella loro, dei poveri, che si era comprato tanto tempo prima. La prese e la riconsegnò ai poveri. E i poveri stapparono la bottiglia. E adesso con quella libertà i poveri potevano farci un partito, per dire. Potevano farci un circolo, potevano farci una bandiera, un inno, una canzonetta. Però ci fecero poco e niente, perché la libertà da sola non serve a niente. Così allora il podestà si cercò nelle tasche e trovò un pacchetto di caramelle alla menta, lo prese e regalò quelle caramelle ai poveri e i poveri da quel giorno tornarono ad essere liberi, liberi di succhiare mentine”
Questa storia vuol far si, di portare tutti noi a una riflessione, e lo farò scrivendo a un particolare discorso che fece Madre Teresa di Calcutta alla folta folla che, era accorsa per ascoltarne le sue parole:
“La nostra attività, il nostro lavoro, il nostro servizio ai poveri – disse Madre Teresa nell’incontro – non sono che l’espressione concreta del nostro amore per Dio”. “Nell’intento di portare un po’ di sollievo alla vita dei poveri – proseguì – noi scegliamo liberamente di essere poveri come loro, in modo da poter comprendere la loro povertà. La povertà, per noi, è la libertà di servire i più poveri tra i poveri”. “Abbiamo bisogno della vita di preghiera per essere capaci di vedere Cristo sotto le sembianze del volto sfigurato dei poveri”, aggiunse la suora, per la quale “non riteniamo che sia una perdita di tempo spendere l’intera nostra vita sfamando gli affamati, vestendo gli ignudi, assistendo i malati, dando una casa ai senza tetto, insegnando agli ignoranti, amando chi non è amato, accettando chi non è voluto, perché Gesù ha detto: ‘Voi l’avete fatto a me’”. In quell’occasione, Madre Teresa parlò anche dei lebbrosi ma riconobbe che la malattia più grave, oggigiorno, non è la lebbra o la tubercolosi, ma la solitudine, il sentirsi ignorati, non amati, non voluti”. “Questa – ammonì – è la causa di tanti disordini, divisioni e guerre che oggi ci affliggono”. Per questo, aggiunse, “tutti dovremmo diventare missionari della carità e portare l’amore di Cristo prima di tutto nella nostra famiglia e poi al vicino, così da estendere la pace in tutto il mondo”.
Lasciate che la vita faccia il suo percorso, nel bene o nel male, ma ricordate sempre di portare rispetto di tutte quelle persone che sono state meno fortunate, ma non hanno mai perso la loro dignità…..e se potete, fate del bene.
di Antonio Gentile