Viviamo in un mondo invaso dall’apparente felicità, a un livello tale che essere felici sembra essere diventato non solo un obiettivo di vita, ma un diritto e un obbligo. Non ci è concesso di fallire, e siamo condannati al successo e al benessere. Per aiutarci, alla fine degli anni novanta è nata una nuova “scienza” dominata dalla psicologia positiva, con i suoi medici, le sue celebrità, i suoi scienziati autoproclamati e i suoi guru pronti a insegnarci come essere felici. La sociologa Eva Illouz ed Edgar Cabanas dimostrano quali conseguenze – politiche, ideologiche, scientifiche ed economiche e minacce si nascondono dietro l’industria della felicità a tutti i costi, che ha spostato la responsabilità dalla società all’individuo.
In antichità era la ricompensa per pochi eletti, poi diritto universale di ogni individuo, infine dovere cui ottemperare, pena profondi sensi di colpa. Ormai, infatti, la felicità viene perfino imposta e vissuta come costrizione. La cosa, in verità, era già stata notata tra gli altri da François Truffaut: «La felicità è la cosa più semplice, eppure, oggi, tanti si affannano per trasformarla in lavori forzati». Nutrita anche la fazione degli iscritti alla scuola di pensiero opposta, secondo cui interesse primario del sistema occidentale sarebbe di poter contare su masse di infelici, perché insoddisfazione e frustrazioni rendono tutti ubbidienti consumatori.
Fresco di pubblicazione Happycracy. Come la scienza della felicità controlla le nostre vite di Edgar Cabanas ed Eva Illouz (Codice Edizioni, pagine 208, euro 27,00), domenica sarà al centro del dibattito di uno degli incontri internazionali di National Geographic Festival delle Scienze, al Parco della Musica di Roma.
Il tono dissacrante degli autori, che nel titolo della conferenza a “scienza” aggiungono anche “industria”, allude a una sorta di pornografia delle emozioni, frutto di una sottocultura popolare americana identificabile con il sogno stelle strisce, che ha reso la felicità a tutti i costi non solo tratto distintivo della retorica yankee ma anche progetto politico. E, in questo piano, pensato, costruito ed esportato, la classe dirigente ha dovuto reggere la concorrenza di scrittori, editori, life coach, fondazioni, celebrità e guru di ogni genere, affiliati alla fiorente multinazionale pseudoscientifica della felicità. Secondo Cobanas ed Illouz, concluso l’iter – ovvero, indotto il bisogno di felicità e proposto, e poi confezionato, l’oggetto del desiderio – si è provveduto a fare della felicità materia di programmi universitari, televisivi ed elettorali, argomento di dibattiti pubblici e tema di conversazione sul web, a casa e al lavoro. E, così, inondati dall’onnipresente allegrezza di un neopositivismo di facciata, fallimenti, sbagli e umani cedimenti alla malinconia sono severamente banditi, onde evitare di minacciare e destabilizzare l’equilibrio (ideologico, sociale, economico e culturale) di questa lobby felice e contenta.
Siamo certi che una contenuta dose di infelicità non sia funzionale alla ‘salute’ dell’uomo?
Cabanas: Non esiste prova definitiva e convincente a dimostrazione del nesso tra felicità e benessere psicologico, o tra infelicità e malessere nonostante quanto da tempo vadano raccontando gli esperti di “scienze felici”: che la positività sia cosa buona e la negatività cattiva, è fallace, pericoloso e ideologico.
Illouz: Sono argomentazioni tipiche di una tendenza tirannica volta a stigmatizzare ogni lamentela, critica o indignazione rivelatrici di qualsiasi timido cenno di dissenso o malcontento politico e sociale.
Cosa perdiamo per strada nell’affannosa corsa all’inseguimento del traguardo?
Cabanas: Inseguire un traguardo così fortemente individualistico comporta un approccio esistenziale ossessivo, una condizione di costante tensione e di totale controllo di emozioni, paure, preoccupazioni. E tutto ciò non è sano psicologicamente e non è bene socialmente. Questo perché la nostra interiorità non è il luogo che dovremmo sempre abitare: la letteratura scientifica conferma quanto l’eccessivo ripiegamento su se stessi sia legato a crescenti stati di ansietà e depressione, e a profonde forme di stress e narcisismo. Sociologicamente, inoltre, la felicità rende ognuno responsabile della propria vita.
Spostando la responsabilità dalla società all’individuo, la felicità diventa una scelta: corollario logico è che anche la sofferenza lo sia. Théophile Gautier disse: «Dio si è riservato la distribuzione di 2 o 3 piccole cose sulle quali non può nulla l’oro dei potenti della terra: genio, bellezza e felicità».
Illouz: Già, vendere il messaggio secondo cui chi non manifesta espressioni di positività, chi è incapace di stare sempre al top, meriti il sospetto di andarsi a cercare il malessere, e di esserne responsabili, è inquietante e primitivo.
Tutti aspiriamo alla Felicità o contano -ancor di più- ideali, come libertà, giustizia, amore…
Illouz: La felicità è diventata una tale “droga emozionale” da rendere politicamente insensibili. Ci anestetizza con l’ingannevole promessa di una vita migliore fai da te. Contemporaneamente, ci deconcentra dal credere in più nobili valori e dal perseguire virtù qualificanti la statura di un individuo. Come la solidarietà e la conoscenza.
La felicità, in quanto merce emoziona-le, è a buon mercato, ma il relativo giro d’affari è multimiliardario…
Ormai siamo all’istituzione di una potente industria globale: il business del coaching, per esempio, genera oltre 2 miliardi di dollari l’anno. In questa giungla, chiunque può autodefinirsi coach, guru, guida spirituale o maestro di meditazione! Con il conseguente bagaglio di attrezzi del mestiere e gadget di circostanza che, illudendo che esistano soluzioni semplici, semplicistiche e semplificate a problemi complessi e che tali soluzioni dipendano da loro stessi, foraggiano il relativo mercato. Una merce universale, che si rivolge indistintamente a tutti, in quanto non si limita al target di coloro che non sono in pace con sé stessi, ma si rivolge a tutti come potenziali clienti.
Chi e come stabilisce il raggiungimento della meta?
Cabanas: Si tratta di una ricerca spasmodica e insaziabile, in quanto la felicità non è l’apice della curva esistenziale, ma un continuum, un processo in costante divenire, una tensione al miglioramento. Questo comporta un paradosso: la vocazione ultima della felicità, che consiste nella piena realizzazione di un io completo e di una vita appagata, genera la narrazione dell’insufficienza, che pone gli individui in una posizione in cui manca loro sempre qualcosa, se non altro, perché la felicità assoluta, in quanto orizzonte ideale, sarà inevitabilmente irraggiungibile. Assistiamo, così, alla nuova categoria dei “cercatori di felicità” e di “happycondriaci” (gioco di parole dall’inglese happy, felice, e hypochondriac, ipocondriaco, ndr) ossessionati dal proprio io interiore e ansiosi di correggere tic e storture psicologiche. L’insaziabilità è uno degli aspetti chiave che rende la felicità la merce perfetta per un mercato che prospera sugli affanni per la nostra condizione mentale e fisica, e che lega strettamente la sete di felicità con la voracità del consumismo e l’ingordigia del mercato.
dal web di Antonio Gentile