Sono passati tre decenni da quel giorno che rese Venezia la tappa della musica, un ricordo memorabile con l’evento unico, il concerto che i Pink Floyd tennero a Venezia il 15 luglio 1989, da molti considerato il concerto del secolo, fu l’episodio più importante di una lunghissima tournée durata la bellezza di tre anni dal 1987 al 1990, anno in cui si chiuse nel giugno al Knebworth Park nello Hertfordshire in Inghilterra. L’evento fu trasmesso in mondovisione e si calcola che vi assistettero oltre cento milioni di spettatori attraverso i canali televisivi ma resta ancora difficile stabilire quanti fossero invece quelli presenti nella città lagunare (taluni affermano duecentomila) che venne letteralmente presa d’assalto dalle persone arrivate da ogni dove fin dalle prime ore del mattino. Il palco fu costruito su di una piattaforma galleggiante fatta giungere da Trieste con dei rimorchiatori e ancorata nello specchio d’acqua di fronte Piazza San Marco.
Rimagono ancora vive le polemiche che precedettero l’evento: basti pensare che l’autorizzazione finale allo svolgimento del concerto fu firmata dal vice sindaco De Piccoli solo poche ore prima dell’inizio dopo una serie infinita di difficoltà e di fatto Venezia abbandonò la band al suo destino a tal punto che i Pink Floyd dovettero persino affittare per conto proprio le transenne che avrebbero delimitato le aree rosse nel tentativo di arginare il pubblico intervenuto massicciamente. La città si preparò all’avvenimento quasi fosse in guerra: negozi chiusi, anzi più che chiusi con barricate improvvisate e nella città mancava tutto. In ultimo la Giunta tentò di mettere persino la sordina al concerto imponendo il divieto di superare i 60 decibel (l’imponente impianto tecnologico della band permise loro di farsi sentire ugualmente e il limite fu gradualmente superato fino a picchi di 90-92 decibel, mentre i famosi foghi del Redentore, la cui festa ricorreva proprio quel giorno, superarono ampiamente i 107 db).
Il palco galleggiante (mt. 90 x 30 x 25) fu sistemato leggermente di tre/quarti rispetto alla Piazza per favorire le riprese televisive e sotto il palco arrivarono un numero enorme di gondole, gozzi, barchette, motoscafi insomma qualunque cosa fosse in grado di galleggiare. Durante lo spettacolo i laser illuminarono sia la laguna che Piazza San Marco offrendo un colpo d’occhio sensazionale; sulla scena caddero quelle grandi macchine robotiche che avevamo già visto durante tutta la loro tournée e di cui avevamo imparato la funzione: esse emanarono luci, fumi e una parte anche del suono e vederle in azione fu una cosa straordinaria e futurista. I Pink Floyd sono sempre stati all’altezza della fama che li ha in ogni occasione preceduti ed anche questa volta hanno saputo mettere insieme in poco tempo una vera e propria cattedrale tecnologica con un megaschermo circolare di grandi proporzioni che durante il concerto trasmetteva le immagini di vari spezzoni filmati ed effetti psichedelici che insieme ad altre luci completerono la parte visiva dello spettacolo, diremmo oggi multimediale, che supera il rock vero e proprio per entrare nella categoria del sogno.
La line up è quella consolidata durante la tournée: David Gilmour, chitarra e voce, Richard Wright, tastiere e voce, Nick Mason, batteria e percussioni, Jon Carin, tastiere, sintetizzatori e voce, Tim Renwick, chitarra, Guy Pratt, basso e voce, Scott Page, sassofoni, Gary Wallis, percussioni Rachel Fury, Durga McBroom e Lorelei McBroom, coro. Dallo show, tuttavia, furono cancellate una decina di canzoni, tra cui One slip, A new machine, Us and them e Welcome to the machine. Cancellate anche One of these days e On the run, e quindi non vedremo il grande maiale rosa dagli occhi di brace volare sopra le nostre teste, simbolo del potere corrotto, o l’enorme letto volante: in gran parte tutto questo è dovuto alla diretta in mondovisione che ha ridotto lo spettacolo a soli novanta minuti. Si comincia dunque puntualissimi alle 21 e 45 tra soffi di venti lontani e temporali, stormi di uccellini ed un aereo (immaginario) che passa rombando e loro, i giganteschi Pink Floyd si presentano ad uno ad uno sul palco, ultimo David Gilmour sulle note di Shine on you crazy diamond con la sua Fender al collo e un po’ emozionato saluta in italiano il pubblico per passare poi subito all’inglese per il resto della breve presentazione.
Il caleidoscopio inizia a girare vorticosamente: il palco s’inonda di luci e sullo schermo passano immagini psichedeliche mentre si diffondono le note di Learning to fly, voli impossibili e fantastici che ci permettono di prendere le misure di uno straordinario impianto strumentale. Seguono Yet another movie, con le bacchette laser di Mason, Sorrow, con i suoi fantasmagorici effetti luminosi; cani rabbiosi ci saltano addosso dallo schermo pronti a divorarci sulle note iniziali di Dogs of war; e poi ancora la bella On the turning away, rutilante di colori. Lo spettacolo è entrato nel vivo e tutti sono attenti a seguirne il flusso di colori, di supertecnologie, di trovate, anche divertenti della band che si dimostra completamente padrona della scena; parte il potente scampanellio di centinaia di orologi di Time, e sappiamo che questo preannuncia uno dei pilastri del concerto che arriva puntualmente quando Rachel Fury intona le primissime note di The great gig in the sky: si arrampica veloce, in verticale, sullo spartito che fu di Clare Torry, si innalza in volo e sono strida di uccelli che gridano tristi nei toni ultrasottili che riesce a creare con la sua voce. Rivediamo Gilmour seduto alla sua slideguitar, compiere di nuovo la fascinazione, torniamo a vederlo giovane ancora, bello e sfrontato mangiare le sue ostriche insieme agli amici della band alla mensa della EMI, mentre come in una dissolvenza in cui trascorrano in un batter d’occhio tanti anni Durga McBroom prende per sè il brano continuando in iperbass la sua magnifica trama, e tutti lasciano che il cuore si sciolga in quella potente malìa che vedrà il cantato cambiare ancora nella bella voce, questa volta piena e profonda di Lorelei McBroom che ci riporta verso le note scogliere di uno dei vinili più amati della musica moderna.
Tutto questo accade prima della dedica a Syd Barrett, genio indiscusso e fondatore del gruppo: Wish you were here, cantata in coro dai migliaia di giovani di mezzo mondo, ciascuno con il suo modo, la sua singolarità. Lo spettacolo prosegue senza soste in un crescendo da lasciare senza fiato: Money, originale e divertente con un arrangiamento blues e reggae, mentre le macchine robotiche surriscaldano l’atmosfera con giochi impazziti di luci e diavolerie sceniche: ed ancora, Another brick in the wall e Confortably numb, fumi, laser, arti robotici roteanti, una sfera scintillante che si apre sulla testa dei musicisti, diventando un fiore metallico, luminoso e colorato. Si chiude magistralmente con Run like hell, dove il palco fatica a reggere l’impatto dei suoni e delle luci, dei fumi e dei laser che ne punteggiano l’atmosfera, sembra esplodere nel fiume di musica fino ai fuochi d’artificio che anticipano di pochi minuti quelli per la festa del Redentore i veri e propri foghi di Venezia. Ci vollero tre giorni per riportare la città alla normalità dopo quel concerto di cui rimane la testimonianza indelebile di quanti riuscirono a vederlo.
di Antonio Gentile