Roma, 16 marzo 1978. Erano le 9,02 quando le Brigate Rosse uccisero Raffaele Iozzino, Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera e Francesco Zizzi, gli uomini dello Stato che scortavano il presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro. Anche se incisi sulla lapide di via Fani, sono quasi Militi Ignoti come quello sepolto nell’Altare della Patria, ai piedi della Dea Roma. Nomi fissati sul marmo destinato a durare nel tempo, ma quasi scomparsi dalla memoria. Certo ogni anno, nell’anniversario di quel giorno funesto, la targa è adornata dal Tricolore, da cento fiori, soprattutto dalla commozione. Ma ormai loro vivono solo nel ricordo dei loro familiari e degli amici sempre meno numerosi visto il trascorrere del tempo.
Aldo Moro venne brutalmente assassinato dopo 55 giorni trascorsi nella tetra ‘prigione del popolo’ messa in scena dall’odio politico di quell’epoca e la storia di quei delitti, dell’angoscia che in quei giorni prese gli italiani – non tutti, in verità, perché in molti applaudirono alla notizia della strage – l’ho ricostruita soprattutto attraverso i giornali di Trento: Alto Adige, L’Adige, Vita Trentina e dai personaggi della politica e del giornalismo di 40 anni fa e dai quotidiani nazionali: Corriere della Sera, La Repubblica, Il Messaggero. Lavoro preso appunto dai giornali. Con i loro limiti, gli inevitabili errori ma dove la cronaca diventa storia da consegnare al futuro e anche da libri davvero straordinari scritti dai testimoni di quelle giornate di autentica angoscia: Italo Pietra, Leonardo Sciascia, Adriano Sofri e Anna Laura Braghetti. Lei faceva parte della colonna romana delle Br che, uccisi i cinque uomini dello Stato, assassinarono Moro. C’è anche il racconto, intenso, di due personaggi, due senatori della Dc – Giorgio Postai di Trento e Giorgio Di Giuseppe di Maglie, la città natale di Moro – a ricostruire quella tragedia da loro vissuta giorno dopo giorno nei palazzi della politica romana. Sono i superstiti di un’epoca che sembra talmente distante da apparire irreale.” (L’autore)
“55 giorni. L’Italia senza Moro” (disponibile in libreria dallo scorso maggio, edizioni Il Mulino), un avviso opportuno al lettore in procinto di acquistare un testo, sicuramente diverso dai tanti altri pubblicati sull’evento più tragico della storia repubblicana italiana, l’uccisione di Aldo Moro.
La prima domanda che sorge spontanea alla lettura dei “55 giorni “di Massini insiste sulla casualità tutta italiana che un’indagine introspettiva così arguta e puntuale sui territori extra giudiziali o giornalistici, ampiamente consumatisi sulla tragica vicenda, seppure mai compiutisi in conclusioni definitive, potesse scaturire solo quaranta anni dopo la strage, grazie alla ricerca di un autore postero rispetto all’epoca dei fatti.
Fiorentino, classe 1975, Stefano Massini, scrittore, drammaturgo, sceneggiatore (il suo ultimo lavoro teatrale, Occident Express – Haifa è nata per star ferma – in tour nelle sale italiane, riunisce sul palco Enrico Fink e Ottavia Piccolo), giornalista d’approfondimento, consegna un’indagine ampia, apparentemente orientata su teoremi ideologici, sebbene supportata da una bibliografia complessa quanto puntuale.
La ricerca dell’autore parte dall’uccisione dello statista Moro per inquadrare immagini e stati d’animo di una società, definita, con una citazione condivisibile nella premessa ai quattro capitoli che compongono il libro, come “l’Italia marginale”.
Espressione non proprio felice che caratterizza la popolazione italiana post Settanta, inconsapevolmente avviata a traversare la stagione più buia e drammatica dell’Italia repubblicana, rubricata mediaticamente nei cosiddetti e più ripresi “anni di piombo”.
I fenomeni, i dati osservati avallano la marginalità di una società, dai quali lo stesso Massini prende ragionevolmente le distanze, non fosse solo per un’oggettiva ragione anagrafica.
La narrazione non riguarda perciò le vicende, in buone parti ancora oscure, dei giorni del sequestro e di tutto il seguito al tragico rinvenimento della Renault con il cadavere di Moro in via Fani. Massini passa al vaglio lo sfondo culturale e antropologico, dove poggiavano gli umori, le attese della maggior parte degli Italiani. Permeati da alcune passioni universali. La canzone popolare e il calcio sono due esempi portanti, così come la formula uno piuttosto che la quasi totale fidelizzazione dei telespettatori ad alcuni programmi Rai (all’epoca ancora incontrastata nel regime monopolista dell’etere analogico), Portobello e i quiz di Buongiorno. Risalta il predominio di alcuni personaggi, riconosciuti come icone di quel neo realismo imperante, posto come ombra alle inevitabili trasformazioni generazionali. Passaggi velati quando non sopiti dalle striscianti cortine granitiche di conservazione che oggi chiamerebbero “poteri forti”.
Così Rino Gaetano stella emergente a Sanremo tramuta rapidamente nel profeta di una nuova era “fatta di sesso”, mentre la società calcio Napoli del patron Ferlaino fa il botto con l’ingaggio di Beppe Savoldi pagato due miliardi di lire a Bologna. Niki Lauda gareggia nella sua monoposto con il viso segnato dalle gravi ustioni di un terribile incidente.
Nel mosaico immaginato da Massini alcune tessere hanno i volti di altri intellettuali alfieri della musica d’autore: Renato Zero e Patty Pravo, Anna Oxa e Fabrizio de Andrè, Giorgio Gaber e Mina passando per lo stesso Venditti.
Nei capitoli che seguono “il tribunale del popolo” che decreta l’atto eversivo, efferato, al quale è sottoposto Moro dai suoi carnefici brigatisti, è sovrapposto dal processo sociale attraversato dalla società italiana. Un flusso di fatti, tensioni emotive dove emergono profili contrapposti impegnati in cambiamenti storici quanto non rivoluzionari. I nuovi approcci terapeutici nella psichiatria innovativa di Franco Basaglia fanno da contraltare ai mitra di Curcio e Cagol.
La lettura di Massini avanza su due binari paralleli. La sequenza di vicende di varia natura, alcune inerenti alla scia di sangue terrorista (gli attentati omicidi ai giornalisti Casalegno e Tobagi, la gambizzazione di Montanelli), fa il paio con i principali programmi d’intrattenimento televisivo, la spettacolarizzazione di alcuni eventi sportivi (ancora la formula uno con Gilles Villeneuve e il giro ciclistico d’Italia con Moser e Saronni) o di alcuni spot pubblicitari. Strumenti reali di distrazione di massa rispetto a scelte politiche dell’esecutivo centrale: la diversa posizione governativa aperta alla trattativa, assunta nel caso del rapimento dell’assessore regionale campano Ciro Cirillo, operato ancora dai brigatisti rossi tre anni dopo l’omicidio Moro, è un caso di scuola. Altresì rinverdire luce e memoria sulla vicenda di Peppino Impastato, ucciso nello stesso giorno dello statista democristiano.
La narcosi collettiva che sembra avvolgere in una nemesi storica la generazione italiana, fotografata con le metafore cinematografiche (Sergio Leone, ancor più Luigi Comencini con il film L’ingorgo girato nel 1979), ci riconduce ai giorni nostri.
Rigorosa la schiera d’intersezioni citate dallo stesso autore nel prologo finale. Le conclusioni sono aperte e non definitive. Arrivarci con ragionamenti corretti è un impegno importante per tutti i lettori.
di Antonio Gentile