La festa dei Serpari di Cocullo si svolge ogni primo giovedì di maggio. Per chi ama spettacoli dal sapore forte e primitivo è doveroso recarsi a Cocullo , piccolo paesino dell’Abruzzo. Vi troverà certamente ciò che cercava; e l’impressione di quanto avrà visto e provato quel giorno non lo abbandonerà per tutto il resto della sua vita. Nessuno è potuto restare insensibile di fronte ad una manifestazione religioso-folcloristica di così rara emotività.
Uno dei riti più suggestivi e caratteristici che si svolgono in Abruzzo è sicuramente quello dei serpari che ha luogo a Cocullo nel giorno dedicato a San Domenico, un monaco benedettino di Foligno che attraversò il Lazio e l’Abruzzo fondando monasteri ed eremitaggi. A Cocullo si fermò per sette anni, lasciando un suo dente e un ferro di cavallo della sua mula, che divennero delle reliquie. Ogni anno il 1° maggio, in occasione appunto della festa del santo, si rivive per le vie del paese il “rito dei serpari”, un rituale antichissimo dal sapore magico e oscuro.
Cocullo viene invaso da migliaia di persone: fedeli in pellegrinaggio, semplici visitatori, studiosi di antropologia, fotografi, cineamatori, operatori televisivi, da ogni parte d’Italia e dall’estero. La religiosità si manifesta in modo particolare con l’offerta di serpi (colubri, lattari, biscie, ecc.). al protettore San Domenico Abate, incoronato dai “Serpari” per la processione nelle strade del paese. Il rito dei serpari è un culto molto antico, che nel tempo, con l’avvento del cristianesimo è andato a soppiantare il culto pagano della dea Angizia. La Dea-maga Angizia (sorella di Medea e di Circe), aveva scelto come sua dimora le sponde del lago Fucino e con il canto riusciva a dominare i serpenti e comandarli secondo la sua volontà.
Il rito delle serpi portate in processione insieme alla statua del Santo ha origini e agganci antichissimi, con ogni probabilità, esso risale al tempo in cui Cocullo era sede del culto di Angizia, la dea che insegnava l’arte dei contravveleni ai primitivi popoli Marsi, che le offrivano in omaggio il sanguinoso sacrificio delle serpi. Secondo Plinio il Vecchio, che per primo descrisse la allucinante cerimonia pagana, le antiche popolazioni della Marsica avrebbero appreso l’arte di incantare i serpenti da Marso (da cui derivò il nome della terra in cui si erano insediate), figlio della mitica maga d’Eea, Circe. Altri attribuirebbero a Umbrone, sacerdote di Angizia e guerriero, il merito di aver edotto quelle genti alla magica attività di rendere innocui i serpenti velenosi.
Non poche le credenze in merito ad una probabile valenza taumaturgica e miracolosa per cui chi era stato morso da serpenti, cani con la rabbia o altri animali velenosi, potesse guarire dopo essere stato scosso da fortissime convulsioni epilettiche, segno evidente che per opera del santo il sangue aveva rigettato il veleno. La processione di San Domenico è il momento conclusivo e più suggestivo di una festa che inizia già alcuni giorni precedenti il primo di maggio, quando i cosiddetti Serpari si recano nelle montagne circostanti il paese per catturare i serpenti, naturalmente non velenosi, che vengono poi posti in cassette di legno per essere liberati solo nel giorno della processione.
Ci teniamo a precisare che gran parte delle serpi viene restituita alla montagna, al loro ambiente naturale. Il rito si ripete nella primavera seguente, esse vengano catturate di nuovo dai serpari e riofferte in simbolico omaggio sacrificale a San Domenico, secondo il rituale che conosciamo. Poi nuovamente « A processione finita », lo diciamo anche per tranquillizzare gli animalisti, i serpari appena finiti i festeggiamenti del Santo patrono Domenico, portano le bestiole presso il ‘Ponte’. Quivi l’arciprete o il ‘procuratore’ le pagano tanto cadauna ed a conclusione i serpari danno la libertà alle serpi nella terra di ‘Marano’.
Il Santuario è affollato, specie dall’agosto al settembre. Fedeli e gente infelice vengono a riportare a uno stato di tranquillità ed impetrare grazie al Santo, che protegge dai morsi velenosi delle serpi e dall’idrofobia. Un paese, ancora ai nostri tempi, povero, anche perché molti dei suoi abitanti sono espatriati in massa in terre lontane a lavorare, perché Cocullo è stata ed è ancora terra dura per sopravvivere.
di Antonio Gentile