Se ci fissiamo su come vorremmo che i nostri figli fossero da adulti, rischiamo di non tenere conto della qualità delle esperienze che stanno facendo adesso da bambini. Di questi tempi, quasi ogni argomento di discussione fa scattare le peggiori forme di tribalismo ottuso e sdegno sociale, ma la stessa cosa è sempre successa nei confronti di un noto dilemma psicologico: i videogiochi violenti rendono le persone più violente? Per i conservatori della cultura non può essere altrimenti, per chi li usa, è un’accusa infondata.
Le ricerche in materia sono estremamente contraddittorie. A mio parere, la risposta a questo interrogativo è: “Probabilmente un po’ sì”, anche se da un approfondito studio condotto di recente, non è emerso alcun collegamento tra l’aggressività e il tempo passato a giocare. Come ha scritto Matthew Warren sul sito Research Digest, i risultati di molti studi sono distorti da quelle che definisce “informazioni maliziose”. Se provate a chiedere a un adolescente se ha pulsioni violente, nella maggior parte dei casi esagera perché si diverte a scioccarci.
Questo è un problema serio quando si conduce una ricerca sui giovani: moltissimi affermano di essere stati adottati, di essere transessuali, bassissimi o altissimi, non perché lo siano veramente, ma perché sono ragazzi e, se non si inventa qualcosa, compilare un questionario è una gran noia. In un sondaggio pubblicato dalla National Public Radio americana, 253 studenti hanno affermato di avere un arto artificiale anche se nel 99 percento dei casi non era vero.
Pensiamo che lo scopo di un bambino sia crescere, mentre lo scopo di un bambino è essere un bambino
Questo dibattito mette in evidenza un’altra stranezza: la tacita convinzione che l’unica possibile ragione contro il fatto che qualcuno passi diverse ore al giorno impegnato in un gioco di violenza simulata è che i suoi effetti sono devastanti. La letteratura su come educare i figli è pervasa da questa idea: l’unico metro per valutare il comportamento dei genitori, o il modo in cui passano il tempo con i loro figli, è quanto influisce sulla loro personalità futura. Essere “iperprotettivi” è sbagliato perché da grandi avranno paura di tutto; farli esercitare al piano ogni giorno dall’età di tre anni è giusto se da adulti diventeranno dei virtuosi.
Lo scrittore Adam Gopnik la chiama “la catastrofe causale: la convinzione che la prova della correttezza o meno di un metodo educativo sia il tipo di adulti che produce”. Sembra un ragionamento sensato ma, come fa notare Gopnik, è un modo terribilmente incompleto di guardare alla vita. E la qualità dell’esperienza attuale? “Il motivo per cui non vogliamo che i nostri figli vedano film violenti non è il timore che da grandi saranno psicopatici”, scrive. “È che non vogliamo che li vedano adesso”.
Forse passare una fetta della nostra breve vita a inseguire fantasie violente non è la cosa migliore da fare, anche se non ci rende aggressivi (se poi impedire ai nostri figli di farlo è la strategia migliore è un’altra questione). Se le lezioni di piano rendono infelice la loro infanzia, forse non vale la pena imporgliele. Mio figlio è ancora troppo piccolo perché debba preoccuparmi dei videogiochi, ma sono rimasto scioccato nel vedere quanto è facile che la scelta dei compagni di gioco o della quantità di tempo che gli consentiamo di passare davanti a uno schermo abbia a che vedere con il futuro di un bambino e non con il suo presente. Gopnik cita Tom Stoppard che, in uno dei drammi della sua trilogia La costa dell’utopiascrive: “Dato che i bambini crescono, pensiamo che lo scopo di un bambino sia crescere, mentre lo scopo di un bambino è essere un bambino”.
Tendiamo a sopravvalutare il futuro dei bambini perché ne hanno molto davanti. Ma il discorso vale per tutti. Giudicare un’esperienza solo in base ai suoi effetti futuri significa non tener contro del presente, anche se è l’unico vero tempo che esiste.
dal web di Antonio Gentile