Mi è piaciuto, di questo libro, “Un atomo di verità” il modo semplice e intimo con cui Marco Damilano ha raccontato del rapimento e dell’assassinio di Aldo Moro, lo ha fatto frugando nei suoi ricordi di bambino restituendo al lettore l’atmosfera di una Roma, di una Italia, attonita.
“Datemi un milione di voti e toglietemi un atomo di verità e io sarò perdente”, Lettera di Aldo Moro al deputato Dc Riccardo Misasi.
Il sequestro di Aldo Moro ha segnato la fine di una generazione, la sua morte il tramonto della Repubblica. Marco Damilano ha deciso di tornare a quell’istante, per indagare le traiettorie che, a partire da uno dei capitoli più cupi della storia italiana, si sono dispiegate fino a oggi. Con l’aiuto delle carte personali di Moro, in gran parte conservate nell’archivio privato di Sergio Flamigni e non dallo stato, e rimaste inedite, getta luce sul punto in cui la drastica interruzione di una stagione politica si incontra con le vicende personali di una generazione, che tra il 16 marzo e il 9 maggio 1978 assiste alla fine di un’epoca. Dopo via Fani, secondo Damilano, comincia la lunga fine della Prima Repubblica. Un racconto autobiografico che attraversa la dissoluzione della DC, la morte di Berlinguer, la caduta del Muro, Tangentopoli e la latitanza di Craxi in Tunisia, fino all’ultima stagione, inaugurata dalla sua metafora televisiva: il Grande Fratello. Arriva a Berlusconi, a Grillo e a Renzi, i protagonisti di una politica che da orizzonte di senso e di speranza si è fatta narcisismo e nichilismo, cedendo alla paura e alla rabbia.
“Nel 1978 sono bastate due Polaroid a cancellare la vita di un personaggio non di secondo piano, come Aldo Moro, il quale, con l’aiuto dei media, ha subìto così un secondo omicidio.
Poter visionare centinaia di fotografie che ritraggono Moro nel corso del suo impegno politico e in molti casi analizzarne i particolari per via del restauro, ha fatto crescere la consapevolezza che la riscoperta di Aldo Moro, ovvero la riscoperta della sua vitalità, attraverso le immagini che lo vedono combattivo e sorridente, concentrato o impacciato, possa servire per ricordare l’uomo e non la vittima, per ricordare quello che era riuscito ad ottenere, mostrando alle future classi dirigenti che la soluzione a molti dei problemi passa dal semplice confronto e dal dialogo con l’avversario politico”.
UN ATOMO DI VERITÀ (UN ESTRATTO)
Il luogo del nostro destino
C’è un punto, da qualche parte, in cui tutto finalmente si incontra, i suoni, gli odori, i volti, i sentimenti, le persone, e diventa possibile conoscere le cose nel loro insieme. I ricordi dei bambini selezionano, sono emotivi, non si muovono, restano fissati lì, incastrati nella memoria, una volta per sempre, al contrario dei ricordi degli adulti, che cambiano, escludono, dimenticano, tradiscono. Così io di quella mattina ho ancora oggi la sensazione dolce di un inizio di primavera. Pochi mesi dopo avrei compiuto dieci anni: crescevo, crescevamo, ne avevamo per la prima volta la consapevolezza, giocavamo a pallone, eravamo per la prima volta gelosi di una bambina, imparavamo ad allacciarci le scarpe da soli, anche se a modo nostro, e io non avrei mai davvero capito come si fa. Quella fu la giornata in cui diventammo grandi.
Erano le prime ore di una mattina di marzo, come tante altre a Roma, di freddo che sta per finire, con il sole che lotta per bucare l’inverno. Il pulmino, un furgone Volkswagen bianco, arrivava in un orario incerto intorno alle otto e mezzo e aspettava con il motore acceso, non lasciava a piedi nessuno. Dopo molti minuti vedevi uscire dai portoni e dai cancelli dei palazzi bambini di corsa con le cartelle in spalla, piangenti, raffreddati, scatenati, il passamontagna giallo calato sul viso. Scendevo anch’io quando sentivo suonare il clacson. Al volante c’era una bionda signora di origine svizzera, il trucco pesante, i capelli raccolti nella coda di cavallo, i guanti di camoscio, allegra e autoritaria. La signora Tilde era la direttrice della scuola Montessori di Monte Mario ed era lei ogni mattina che passava a prendere gli allievi, in ossequio al metodo di insegnamento, per cui tutti dovevano saper fare tutto.
Il pulmino faceva ogni mattina lo stesso giro. Partiva da Prati, risaliva verso la Balduina, dove caricava i primi bambini, proseguiva verso Primavalle, Pineta Sacchetti, fino ad arrivare in piazza Madonna di Guadalupe, dove c’era la scuola, in una zona che ancora confinava con la campagna. In via Stresa salivano tre fratelli, David, Paolo e Marco, gli Orlandelli, “tutti biondi-tutti belli,” scherzava ogni mattina Tilde facendo sentire noi, che biondi non eravamo, neppure troppo belli. Poi il pulmino scendeva, passava l’incrocio, si fermava davanti al bar e aspettava Emiliano, che stava simpatico a tutti, aveva un papà meridionale con la Mini Minor gialla e una mamma con il poncho. Anche quella mattina, come sempre, Emiliano tardava a scendere. Mancavano venti minuti alle nove, in via Mario Fani, il 16 marzo 1978.
Nessuno di noi guardò verso la siepe del bar sotto casa di Emiliano, nessuno si accorse di uomini con il cappello e in uniforme schierati ad aspettare qualcosa, o qualcuno. Quella mattina all’incrocio, davanti alla siepe del bar, non si era visto Antonio: di lui ricordo anche la voce, era per noi l’omone con il camice nero, i capelli radi tirati all’indietro come un attore americano, vendeva i suoi fiori raccolti in un furgoncino e ogni giorno faceva la stessa scena, estraeva una margherita e la regalava alla signora Tilde, che se la infilava dietro l’orecchio. Lo rivedemmo poi in televisione, nei giorni successivi, intervistato dai cronisti, raccontava che quella mattina gli avevano bucato tutte e quattro le gomme del furgone e non era potuto andare al lavoro. Il fioraio era un eroe delle nostre giornate, della nostra epica quotidiana, pensammo che era come se fosse andato in tv uno di noi.
Emiliano scese e finalmente il pulmino ripartì.
In via Mario Fani erano le nove meno un quarto.
A scuola giochiamo nel cortile attorno al pino, intorno all’aia dove ci sono le galline, e risaliamo in classe, ma la lezione non comincia mai, quella mattina non comincerà più. Il campanello non smette di suonare. Arrivano i genitori di Emiliano, degli Orlandelli biondi e belli, di Paolo e Fabrizio, i gemelli, di Cristiana e di Emanuela, che piace a tutti perché sorride sempre. Li vedo preoccupati, tesi, prendono per mano i loro figli e se li portano via uno dopo l’altro, in fretta.
Chi aveva nove o dieci anni di quel giorno custodisce nella memoria questa scena: la scuola che si interrompe all’improvviso, la mamma o il papà che entra in classe a un’ora inaspettata, alle dieci del mattino, e lo riporta a casa. In tutta Italia va così, nelle grandi città, nei piccoli comuni, lontano, lontanissimo da Roma. Una volta Paolo, un amico di Cuneo, mi ha raccontato: lo sai che cosa ricordo del 16 marzo? Mia mamma molto preoccupata che viene a scuola, non era mai successo, torniamo a casa. “La primissima immagine che mi viene in mente quando penso a quel giorno è un ampio corridoio elegante, con il pavimento scuro tirato a specchio. Anch’io sono tra quei bambini che molte mamme, al contempo lucide e sgomente, andarono a prendere a scuola e all’asilo,” ha testimoniato la storica dell’arte Ilaria Maria Priscilla Barzaghi. Mettere in salvo i piccoli, come si fa durante una calamità, un naufragio. Succede ovunque, ma noi invece siamo lì, a Roma, nella scuola elementare di Monte Mario; non lo sappiamo, ma a poche centinaia di metri da noi c’è la guerra, c’è via Mario Fani.
Il telefono di bachelite nera nella segreteria della scuola continua a squillare. Fuori è uscito un bel sole. Si sentono sirene di ambulanze, macchine della polizia, le pale di un elicottero. Alla fine dell’orario scolastico, Tilde mi chiama e mi dice che dobbiamo andare. È allegra, in genere, e il ritorno a casa è sempre un bel momento, ma adesso è sbrigativa, non sorride più, e non capisco perché.
Non sono preoccupato, se fosse successo qualcosa di brutto mio papà sarebbe venuto, ne sono sicuro, scavalcando i suoi impegni. Mio papà Andrea è un giornalista Rai, come dice sempre lui, lavora fino a tarda notte, fuma tanto, porta i giornali a casa, tanti giornali, a pacchi. La sera torna a casa dopo la mezzanotte, per me è un orario fantasmatico. Sento la porta che si apre e so che papà è tornato. Quella mattina, me lo dirà dopo, papà non è potuto venire, è dovuto correre in ufficio, in redazione, come tutti i giornalisti d’Italia, ha chiamato la signora Tilde e l’ha pregata di riportarmi a casa.
Quando usciamo verso il pulmino, mi rendo conto che sono l’unico bambino rimasto in classe. Sono l’unico bambino a bordo del pulmino che poche ore fa era festoso. Sono l’unico bambino d’Italia, forse, che il papà o la mamma non sono andati a prendere.
Mentre compiamo il percorso a ritroso, sono solo ma tranquillo. Non può accadere nulla di male in questo momento della mia vita, in questo punto preciso, il pulmino bianco dai sedili sudati, dai vetri appannati che quando piove ci stampi sopra l’impronta della mano e ci fai i disegni. Anche oggi i gesti sono gli stessi, Tilde accende la radio, come ogni giorno. Durante il ritorno ci appassionavamo tutti a sentire il programma Il Milione su Radio Montecarlo, condotto all’ora di pranzo da Luisella Berrino. Bisognava indovinare il nome di un personaggio a partire da un brano musicale che lo poteva riguardare. Tutti provavamo a indovinare, inseguivamo il nostro sogno di vincere un milione in quel momento di felicità. Si tornava a casa dopo la scuola, c’erano la musica, la simpatia di Luisella, gli ascoltatori. Tutto insieme era la libertà.
Quella mattina, però, questo lo ricordo bene, alla radio non c’è Luisella. Tilde ha cambiato canale e quasi non respira per quanto è tesa. Le voci dei conduttori sono concitate, hanno tutti il fiatone. Come se avessero corso o fossero assaliti da un’ansia incontrollabile. Sono quasi le tredici, siamo già sulla via Trionfale, di nuovo a pochi metri da via Fani. Il sole dell’una caldo entra nel pulmino, il rumore dell’elicottero sopra di noi si fa assordante, sembra voler atterrare sopra il tettuccio del furgone. E qui sento dire alla radio: “Il vice-brigadiere Francesco Zizzi è morto pochi minuti fa al Policlinico Gemelli. L’unico superstite dell’agguato non ce l’ha fatta”. Fuori dal finestrino si vede la polizia, dappertutto. Io sono seduto dietro la direttrice della scuola, solo sul sedile, stiamo facendo la curva che passa davanti alla strada dove abita Emiliano. E a quel punto la radio ripete quello che tutta Italia già sa, da quando il giornale radio della Rai aveva drammaticamente interrotto le trasmissioni con la voce di Cesare Palandri per dare la notizia “che ha dell’incredibile” e che io ancora ignoro: “L’onorevole Aldo Moro, il presidente della Democrazia cristiana, è stato rapito questa mattina, in via Mario Fani. I cinque agenti della sua scorta sono tutti morti”.
Moro ….Quel nome mi arrivò come una scarica.
Moro.
Il primo pensiero: Moro è da un po’ che non lo vedo al telegiornale, è da un po’ che non lo vedo imitato da Alighiero Noschese il sabato sera in televisione, l’unico giorno della settimana che posso andare a dormire più tardi, sono le mie fonti di informazione. Moro è da un po’ che non lo vedo.
Io non so neppure chi sia Moro, in realtà, ma so che Moro lo avevo visto da vicino, due o tre anni prima, sarà stato il 1975 o il 1976. Di nuovo la corsa per arrivare a scuola, la vita di un bambino delle elementari era questa. Avevo perso il pulmino di Tilde perché ero troppo in ritardo anche per lei che aspettava tutti e mi aveva accompagnato papà. Sigaretta in bocca, sulla Fiat 132 rossa che mi piaceva tanto. Papà preferiva dire color amaranto, gli sentivo spesso ripetere questa parola, come la Topolino di Paolo Conte, forse un vezzo da piemontesi. La 132 amaranto saliva agitata verso Monte Mario, ma a un certo punto papà frenò e accostò. “Vieni, ti voglio far vedere una persona importante,” mi disse. C’erano macchine grandi in doppia fila, salimmo le scale di una piccola chiesa, entrammo dentro, mi feci il segno della croce, come mi avevano insegnato. “Guarda. Quello è Moro,” mi sussurrò papà e mi indicò un signore. E allora lo vidi. Di spalle, tutto vestito di scuro, inginocchiato sul banco, rivolto verso l’altare. Non sapevo chi fosse. Era Moro, una persona importante, mi aveva detto papà, e tornai a guardarlo. Era la prima persona importante che vedevo da vicino in vita mia. Aldo Moro. In ginocchio a pregare.
Moro aveva in quel momento sessant’anni. Sembrava più anziano, come è sempre apparso, anche quando era molto giovane. Era il presidente del Consiglio, era un uomo importante e anche molto potente, ma questo lo appresi in seguito. Cominciava la sua giornata con la messa, perché era molto cattolico, faceva la comunione, si fermava a pregare. Andava a pregare lì, vicino a casa, ma poi aveva dovuto cambiare chiesa per evitare una folla di questuanti che lo attendeva ogni mattina fuori e si era spostato a Santa Chiara, in piazza dei Giuochi Delfici alla Camilluccia. Lì era diretto la mattina in cui è stato rapito, e lì in un primo momento i brigatisti avevano ipotizzato di sequestrarlo.
Sono tornato quarant’anni dopo nella chiesa dove lo avevo visto, San Francesco d’Assisi al Trionfale, una mattina verso le nove, come allora. La messa era già finita e non c’era nessuno. Nella memoria mi sembrava più grande, invece è piccola e stretta; sull’altare c’è una Madonna con bambino, all’ingresso una piccola lapide ricorda che la chiesetta è stata fondata da Pietro Francesco Orsini che fu papa Benedetto XIII tra il 1724 e il 1730, nato a Gravina in Puglia e arcivescovo di Manfredonia e dunque pugliese come Moro. Le pareti sono spoglie, l’insieme comunica sobrietà e raccoglimento.
Mi ha colpito che fosse così piccola, quando siamo entrati Moro doveva essere vicinissimo, a un passo. Ho chiesto tante volte a mio padre, negli anni successivi, cosa fosse accaduto quella mattina. Non so se lo abbiamo aspettato per salutarlo e cosa ci abbia detto, e se ci fosse la scorta, il maresciallo Oreste Leonardi, ad attenderlo fuori. Papà non ha mai saputo rispondermi. Forse c’è stata una stretta di mano o forse siamo andati via per non disturbare quell’uomo in silenzio, in colloquio con se stesso, l’unico momento di solitudine nella giornata di un politico impegnato in riunioni estenuanti. I ricordi di un adulto sono mobili, vanno e vengono, i ricordi di un bambino, come dicevo, sono emotivi, portano direttamente alla conoscenza delle cose. Il mio è incastrato lì, non si muove più.
Il primo politico che ho visto in vita mia è stato Moro, in ginocchio, che prega Dio. Penso che quel gesto di devozione, da parte di un uomo che avrebbe poi trovato tanti, tutti, pronti a inchinarsi e genuflettersi di fronte a lui, fosse il richiamo di un senso del limite, il limite del suo potere, doveva ricordarlo a se stesso perché nessuno lo avrebbe fatto appena uscito da quella piccola chiesa, e per tutto il resto della giornata.
Mi sono fatto il segno della croce, sono uscito, sono andato verso via Stresa. Di mattina ci sono ora tavole calde e pizzerie per avvocati e studi medici, un’aria di rispettabile tranquillità borghese e, come quarant’anni fa, ci sono i domestici che vanno a buttare la spazzatura, solo che ora sono di diverse nazionalità.
I quartieri della strage, della fuga, e forse anche della prima prigione di Moro, il Trionfale, la Camilluccia, la Balduina, si somigliano tutti. Affacciati su Roma nord, guardano dall’alto il resto della città. Ambasciate, case religiose, molto verde, il palazzo del Belsito avveniristico progettato dall’architetto Ugo Luccichenti, lo stesso che disegnò l’hotel Cavalieri Hilton sulla collina di Monte Mario, forse la più monumentale opera di speculazione edilizia di quei decenni arrembanti di ricostruzione e predazione. Sono i quartieri dell’Immobiliare Pacelli, i nipoti dell’ultimo papa romano, abitati oggi come allora da dipendenti pubblici, dirigenti, magistrati, giornalisti Rai. Moderati, discreti, benestanti senza eccessi e ostentazioni, sono quartieri democristiani. Alla Camilluccia, a pochi metri da via Mario Fani, in una villa che era stata la residenza del questore di Roma, forse abusiva, a due passi dalla residenza della famiglia di Claretta Petacci, nel 1954 la Dc aveva fondato la sua scuola quadri, in tutto simile alla scuola delle Frattocchie che formava i giovani comunisti. A dirigerla era stato chiamato un deputato bresciano, Franco Salvi, un ex partigiano torturato dai nazisti, cattolico intransigente, devoto a Moro ma anche libero di contraddirlo, per le abitudini spartane nel partito lo chiamavano il Monaco. Nella sede della Camilluccia si riunivano in conclave i notabili, quando c’era da decidere qualcosa lontano dalla folle confusione della sede di piazza del Gesù.
Quando la Camilluccia chiuse come scuola per giovani aspiranti politici cattolici e restò come luogo di incontro del sinedrio delle correnti, la storia della Dc era già finita. Al suo posto, nella zona, erano sbarcati i socialisti. Avevano comprato il Cinema Belsito, strappato a un gruppo di manager che ne voleva fare una palestra di squash, e lo avevano trasformato nel centro congressi del Psi di Bettino Craxi. Inaugurato il 7 gennaio 1990, settecento posti a sedere, il busto di Garibaldi dove c’era la cassa, moquette blu, poltrone rosse, pareti lilla, colonne in finto marmo, quattro pedane mobili, riflettori, rami e foglie di plastica, uno scenario da discoteca, da tv commerciale, era l’immagine della modernità contrapposta allo spartano convento democristiano. Non portò bene, però, perché al Belsito Craxi non celebrò i suoi trionfi, ma la sua caduta. “L’insegna giusta per una tomba di lusso, da giardino dell’eternità,” scrisse quel giorno Giampaolo Pansa. “Quando si farà il catalogo dei luoghi dove crebbe e prosperò la partitocrazia italiana sarà assolutamente d’uopo dedicare un capitolone a questo tempio oggi così funereo.” Oggi è la sede dei raduni della massoneria del Grande Oriente d’Italia.
Via Stresa è una strada tortuosa che conosco bene, la ripercorro a piedi, giù, fino all’incrocio con via Mario Fani, “educatore 1845-1869,” si legge sulla targa, è stato il fondatore dell’Azione cattolica italiana verso la metà dell’Ottocento. All’angolo non è cambiato nulla, i palazzi sono come li descrisse Miriam Mafai su “Repubblica” un’ora dopo la strage: “palazzine a tre piani, dai balconi fioriti di cipressetti nani, dalle ringhiere avvolte nell’edera, simbolo di un faticoso benessere raggiunto”.
Nel 1978 la strada finiva nella campagna, ora porta all’ingresso della galleria per la grande tangenziale che circonda Roma e che scorre dai quartieri del Nord al Sud. Prima o poi capita a tutti i romani di transitare da Via Fani entrando o uscendo in macchina dal tunnel e di passare davanti a quella lapide che ricorda la strage, con i nomi e le foto degli agenti di scorta, ma nessuno la vede, sfilano tutti distrattamente, è collocata all’altezza del marciapiede, di notte è invisibile. Sono tornato qui spesso, una volta c’era una celebrazione, tante corone di fiori, i ministri, i vertici della polizia e dei carabinieri. Un’altra volta l’avevano chiusa al traffico perché era tornata sul luogo la polizia scientifica, spedita dall’ultima commissione parlamentare d’inchiesta, con le tute bianche, i laser, i nuovi sistemi di rilevazione, quando sono arrivato stavano smobilitando, e anche questo faceva una certa impressione, 37 anni dopo quel disastro investigativo che furono le inchieste sull’agguato di Via Fani.
Ora sono di nuovo qui, di fronte alla lapide che recita: “In questo luogo alle ore 9.05 del 16 marzo 1978 cinque uomini fedeli allo Stato e alla democrazia sono stati uccisi con fredda ferocia mentre adempivano al loro dovere. Il Comune di Roma pose il 9 maggio 1979”, a un anno dalla conclusione tragica dei 55 giorni di sequestro, con l’omicidio di Moro. Sotto ci sono le foto degli agenti, mai cambiate da allora. Solo il grande salice nel giardino del palazzo di fronte non c’è più.
Mi fermo davanti al locale dove si nascosero i brigatisti, ha avuto molte gestioni e una vita tormentata, ma la ragione sociale della ristorazione non è mai cambiata. Nel 1978 era il Bar Olivetti, oggi è un elegante ristorante che promette pesce e carne, qualche volta ho pensato di entrare ma ho subito cambiato idea. Mi avrebbe fatto impressione mettermi dietro le tende e ordinare un piatto, un po’ come cercare un libro nel deposito di Dallas da cui Lee Harvey Oswald sparò contro John Kennedy.
La siepe di pitosforo e di edera c’è ancora, molto più folta di allora. Ho provato a nascondermici dietro, ci sono dei gradini che consentono di scendere e non essere più visti e altri che permettono di salire sopra il livello della strada. Faccio dieci passi per attraversare, ai killer celati dietro la siepe e mascherati da avieri ne bastarono appena cinque per raggiungere le macchine della scorta. I passi fatti dall’agente Raffaele Iozzino, l’unico a reagire, saranno stati al massimo due, prima di essere ucciso. E quanti ne avrà fatti Moro, mentre veniva trascinato via?
Guardo di nuovo la lapide. Non si sa, non si capisce a quale dovere stessero adempiendo i cinque uomini quando furono uccisi “con fredda ferocia”. Manca il nome di Moro. Una volta Giuseppe D’Avanzo scrisse che qui c’è la memoria, ma non la storia. La storia è ricerca di verità, conoscenza. E in questo punto, in questo non-luogo dove tutti i romani passano indifferenti, ignari, non c’è ricerca e non c’è conoscenza. Non c’è verità.
Via Fani è uno scenario vuoto, secondo chi ha sostenuto frettolosamente la tesi che tutto fosse chiaro, tutto chiarito, o, al contrario, è un palcoscenico fin troppo affollato, di congetture, ricostruzioni, depistaggi, attori che si muovono e scompaiono. I ricordi degli adulti tradiscono, i ricordi dei bambini sono emotivi, fissati per sempre. Arriva un taxi, lo prendo e vado via.
L’equilibrista sospeso nel vuoto
Non potevo conoscere il motivo per cui quell’anno mi sembrava di vedere meno spesso Moro in televisione, ma avevo ragione. Nel 1978 aveva 61 anni, non era più presidente del Consiglio, e dunque appariva di meno al telegiornale. Era il presidente della Democrazia cristiana, carica onorifica nella gerarchia del partito che governava incontrastato da trent’anni, la nomenclatura repubblicana rispettata dalla televisione di Stato. Eppure Moro non contava di meno, contava di più, contava più di tutti gli altri. E quella mattina, il 16 marzo, i giornali erano pieni di lui, della sua operazione, il suo capolavoro politico, riportare il Partito comunista italiano a votare la fiducia a un governo per la prima volta dopo il 1947: un governo composto tutto da democristiani, per di più, un monocolore guidato da Giulio Andreotti.
“Ho ripetuto a Moro l’invito a presiedere lui il governo, disposto io a starne fuori o dentro come crede più opportuno. Respinge con fermezza. Pensa di poter aiutare dall’esterno forse in modo insostituibile,” aveva annotato sul suo diario Andreotti il 6 marzo, dieci giorni prima. Il presidente della Dc, lo stratega, aveva voluto che restasse lui a Palazzo Chigi, l’uomo per tutte le stagioni, per gestire il passaggio epocale, atteso con preoccupazione fuori dall’Italia. Il 12 gennaio una nota ufficiale del dipartimento di Stato di Washington aveva espresso “preoccupazione” per la situazione italiana e l’ingresso del Pci nell’area di governo: “Noi non siamo favorevoli a tale partecipazione e vorremmo veder diminuire l’influenza comunista nei Paesi dell’Europa occidentale. Riteniamo che il modo migliore per conseguire questi obiettivi sia attraverso gli sforzi dei partiti democratici per soddisfare le aspirazioni popolari di un governo efficiente, giusto e aperto alle istanze sociali”. Frase che aveva irritato Andreotti: “Inutile e inopportuna, un errore sintomo di interferente intelligenza,” si sfogava sul suo diario, prima di cercare l’ambasciatore Richard Gardner per un chiarimento. Il giorno dopo, il 13 gennaio, il governo ormai dimissionario aveva nominato i capi dei nuovi servizi riformati: il generale Giuseppe Santovito (Sismi), l’ammiraglio Giulio Grassini (Sisde), entrambi risulteranno iscritti alla loggia P2, più il prefetto Gaetano Napolitano con funzioni di coordinamento, che si dimetterà durante i 55 giorni del sequestro per lasciare il posto a Walter Pelosi, un altro piduista.
Moro l’insostituibile. Il Presidente aveva una collezione di orologi. Quando tornava a casa, per rilassarsi, li rimetteva in carica, uno per uno. Così si comportava ormai da anni con la Dc: innescava, disinnescava il complicato incrocio di correnti, capi, notabili, il reticolo che reggeva il partito guida dello Stato. Così aveva fatto nella costruzione dell’ultimo passaggio. Aveva tessuto la tela per mesi, senza apparire. E poi, alla stretta decisiva, con i gruppi parlamentari della Dc, convocati per decidere e in gran parte contrari all’accordo, impauriti, terrorizzati, aveva messo in gioco se stesso. La sua parola, la sua capacità di convinzione, il suo carisma, tutta la sua biografia politica. Aveva dato la carica all’orologio bloccato, aveva rimesso le lancette a posto. Filippo Ceccarelli era un giovane cronista, lo vide entrare nella grande aula dei gruppi parlamentari dove si stavano per riunire i deputati e i senatori, provò un approccio, il più timido e innocuo: “Presidente, lei parlerà?”. Nel ricordo di Filippo, Moro aveva la testa inclinata e un sorriso rassegnato. “Eh così, andiamo un po’ a sentire…” rispose, come uno che passava di lì per caso.
Parlò, invece, e fu il discorso della sua vita. Il riferimento di quel discorso è costantemente, com’era abitudine di Moro, l’interlocutore più lontano, il più distante dalle sue posizioni. Parlava ai dc, ma si rivolgeva all’esterno, a una società preoccupata. “Cari colleghi ed amici, io mi sento gravato da una grande responsabilità perché ho colto da tante parti una sollecitazione ad intervenire nel corso di questo dibattito. Mi è sembrato così che parecchi amici pensassero, a torto, che io abbia la chiave per il superamento delle nostri comuni difficoltà…” La chiave per risolvere l’enigma di un governo impossibile l’orologiaio ce l’aveva, ma per azionarla doveva partire da lontano.
Era il 28 febbraio e al 16 marzo mancavano poco più di due settimane. Siamo di fronte a una situazione nuova, aveva cominciato a dire Moro, “una situazione difficile, inconsueta, di fronte alla quale gli strumenti adoperati in passato per risolvere le crisi non servono più, è necessario adoperare qualche altro strumento”. La situazione nuova creata dalle elezioni dei “due vincitori”, la Dc e il Pci, che insieme nel 1976 avevano raccolto il 73 per cento dei voti dell’elettorato, aveva messo il partito da sempre al governo di fronte a un bivio: andare alla contrapposizione frontale con i comunisti o cercare il confronto, la strada più sottile e difficile, “un contatto”. Inevitabile, aggiungeva Moro, perché “certamente devo riconoscere che qualche cosa, da anni, è guasto, è arrugginito nel normale meccanismo della vita politica italiana”.
Gli ingranaggi non andavano più. La politica si era guastata, arrugginita, si era corrotta. Un’ammissione terribile per il presidente della Democrazia cristiana, che neppure un anno prima si era sentito di alzarsi nell’aula della Camera per difendere il suo partito dai processi di piazza. Perché quando arrivano il guasto e la ruggine, quando si è estesa la corruzione, l’unica cosa da fare è tagliare la parte malata per salvare almeno quel che resta della parte sana. Non era solo la questione morale, come l’aveva poi chiamata Berlinguer, il male era nel senso politico, di un corpo che non era più vitale, e allora, si domandava Moro, “che cosa dobbiamo fare? Che cosa possiamo fare per fronteggiare la situazione ed insieme per non rompere, per non distruggere, per non far nulla di catastrofico, per non guastare delle cose che sono essenziali, per noi, che sono ragioni di vita per la Democrazia cristiana?”. Cosa fare nella deriva per non guastare l’essenziale? “Questo è il quesito, questo è il punto…”
Sembrava quasi una dichiarazione di resa del capo della Dc, di impotenza, l’impossibilità di salvare il partito ma anche la democrazia italiana e il senso della politica, e in molti la presero così, ma in quel 1978 Moro invitava i suoi amici di partito a guardare fuori dal Palazzo, nel cuore dell’emergenza italiana, “l’emergenza reale che è nella nostra società. Io credo alla emergenza, io temo l’emergenza. La temo perché so che c’è sul terreno economico sociale. Credo che tutti dovremmo essere preoccupati di certe possibili forme di impazienza e di rabbia, che potrebbero scatenarsi nel contesto sociale. C’è la crisi dell’ordine democratico, crisi latente, con alcune punte acute. Il dato serpeggiante del rifiuto dell’autorità, il rifiuto del vincolo, la deformazione della libertà che non sa accettare né vincoli né solidarietà. Immaginate cosa accadrebbe in Italia, in questo momento storico, se fosse condotta fino in fondo la logica della opposizione, da chiunque essa fosse condotta, da noi o da altri, se questo Paese dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili, fosse messo ogni giorno alla prova di una opposizione condotta fino in fondo…”.
Ma se questo era lo stato delle cose, ragionava l’uomo che in quel momento era il candidato più forte per il Quirinale di fronte ai parlamentari del suo partito terrorizzati dalle novità, non si potevano immaginare forzature, scorciatoie, uscite di sicurezza, la tentazione di tornare alle urne per sfidare il Pci o, peggio, avventure autoritarie. “Nella nostra opposizione al comunismo, certamente, siamo restati forti, ma ci siamo trovati dinanzi una infinità di problemi, di esigenze di carattere sociale, civile, umano, politico. E se non avessimo saputo cambiare la nostra posizione quando era venuto il momento di farlo, noi non avremmo tenuto, malgrado tutto, per più di trent’anni la gestione della vita del Paese. È la nostra flessibilità, più che il nostro potere, che ha salvato fin qui la democrazia italiana…”
Moro si trasformava in un equilibrista. Come il francese Philippe Petit, il funambolo che nel 1974 aveva attraversato lo spazio fra le Torri gemelle a New York percorrendo un cavo di tre centimetri di spessore sospeso nel vuoto, a 417 metri dal suolo. “L’equilibrista sulla corda è in uno stato di equilibrio instabile. Il suo talento consiste nel far sì che la forza che tende a farlo cadere non acquisti mai una potenza superiore a quella di cui egli dispone per contrastarla,” ha scritto l’uomo sul cavo nel suo trattato sul funambolismo, con un’altra avvertenza: “La camminata all’indietro non viene praticata.”
Moro, senza averlo letto, lo sapeva. Era stata la flessibilità del filo, non la sua rigidità, che aveva fino a quel momento permesso l’impresa di governare un Paese “dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili”, che è una delle definizioni più acute e più drammatiche dell’Italia, della sua faziosità politica e della debolezza dello Stato. Solo così si era potuto mantenere l’equilibrio, superare i venti, le trappole improvvise, la possibilità di cadere. Grazie alla consapevolezza che una democrazia complessa non si governa con la forza del comando, ma con l’abilità di non spezzarne la trama.
Come un equilibrista, Moro offriva quella sera lo spettacolo di un leader politico percepito da amici e avversari come potentissimo, e che invece spiegava, persuadeva, rimuoveva obiezioni, parlava all’ultimo degli oppositori ritenendolo il suo interlocutore. In un momento di cui lui stesso avvertiva tutta la fragilità: “Sappiamo che c’è in gioco un delicatissimo tema di politica estera, che sfioro appena, il giudizio di altri Paesi, di altre opinioni pubbliche con le quali siamo collegati, quindi dati di fatto obiettivi”, l’appartenenza all’Occidente e al Patto atlantico nello schema di Yalta, l’Europa in cui “sappiamo che vi è diffidenza, in attesa di un chiarimento ulteriore sullo sviluppo delle cose… Si domanda che cosa accadrà dopo, qualora noi riuscissimo a realizzare la concordia necessaria per questo anno che ci sta davanti. Credo di poter dire che in questo anno non vi sarebbero da temere sorprese. Se voi mi chiedete fra qualche anno cosa potrà accadere (parlo del muoversi delle cose, del movimento delle opinioni, della dislocazione delle forze politiche), io dico: può esservi qualche cosa di nuovo. Se fosse possibile dire: saltiamo questo tempo e andiamo direttamente a questo domani, credo che tutti accetteremmo di farlo, ma, cari amici, non è possibile; oggi dobbiamo vivere, oggi è la nostra responsabilità. Si tratta di essere coraggiosi e fiduciosi, si tratta di vivere il tempo che ci è stato dato con tutte le sue difficoltà”.
Il tempo. Lui che negli anni sessanta, all’epoca del centro-sinistra con i socialisti al governo, era stato accusato di essere l’uomo delle lentezze infinite, della gradualità esasperata, delle riforme sempre rinviate, lui che veniva chiamato l’Amleto di Maglie, il Dottor Divago, Pandit Moro, sentiva che ora anche nella Dc in molti pensavano di lui l’opposto, lo accusavano di voler inseguire una svolta storica in modo impaziente, di essere avventato. Eppure era questa l’esatta dimensione che Moro aveva della politica, come dell’esistenza. Il tempo, il tempo che ci è stato dato da vivere, che non può essere rallentato o accelerato, non può essere evitato, saltato. Si può soltanto viverlo, fino in fondo, con tutte le sue difficoltà. Per il suo partito, per noi che eravamo bambini, per tutti, aveva provato a rassicurare Moro il 28 febbraio, nel 1978 non si sarebbero dovute temere sorprese. Come sembravano solidissime al momento dell’azzardo di Philippe Petit quelle due torri gemelle a New York, un simbolo dell’onnipotenza della modernità, inattaccabile.
Dopo quel discorso la Dc aveva dato un faticoso via libera alla nuova maggioranza con il Pci. Ma l’ambiziosa costruzione politica aveva rischiato la sera del 15 marzo, il giorno prima della fiducia parlamentare, di infrangersi sul più banale degli ostacoli: le poltrone. I comunisti erano furiosi per i nomi dei ministri, in continuità con il vecchio governo e scelti tra le correnti della Dc più contrarie all’accordo, e per lo spettacolo di rissa che stava dando il partito di maggioranza. “Giustamente i nostri compagni – e certo non solo essi, ma strati assai vasti dell’opinione pubblica – sono rimasti colpiti molto negativamente dalla composizione del governo che l’on. Andreotti ha portato a giurare al Quirinale… per la permanenza di uomini logori o palesemente ostili alla linea dell’intesa e della collaborazione,” aveva scritto la mattina del 15 marzo sull’“Unità” il direttore Luca Pavolini nell’editoriale intitolato Critiche giustificate. “Non è certo così che si può pensare di rispondere alla sfida dei tempi, come con qualche orgoglio alcuni esponenti democristiani di primo piano avevano affermato di voler fare… Si sappia che non stiamo scherzando: non soltanto di noi comunisti si tratta, ma del futuro dell’Italia. Non sono indifferenti il contenuto dell’esposizione che il presidente del Consiglio farà alle Camere e il modo in cui sarà resa esplicita la nuova maggioranza parlamentare destinata a sostenere l’opera del governo. La lotta è ancora aperta, devono saperlo i nostri compagni, deve saperlo chi ancora tenta di opporsi al rinnovamento e al risanamento della vita pubblica…”
Un avviso esplicito: la fiducia del Pci non era affatto scontata. E l’allusione a Moro, al suo discorso – non si risponde così alla sfida dei tempi, come si è affermato di voler fare –, era il segnale che la pazienza del Pci stava per finire anche nei suoi confronti.
Nel diario di Andreotti si dà conto della tensione di quelle giornate. “Ho ricevuto una telefonata di Pajetta molto inquieto. Dopo tante settimane non vi è che un rimpasto e se è vero che la Dc ha posto le sue esigenze, non accetta che io sia un Ponzio Pilato. Se si dovessero anche avere più sottosegretari la misura traboccherebbe,” si legge nella pagina del 14 marzo. “Impiego due ore e mezzo prima del Consiglio per convincere tutti i ministri ad accettare la lista. Mi sembra che molti non si rendono conto delle difficoltà che incontreremo alle Camere,” è l’appunto della notte del 15 marzo, la vigilia.
La paura del demiurgo
Provo anch’io, come hanno fatto in tanti, a immaginare le ultime ore di Aldo Moro prima di essere privato per sempre della libertà. La sera precedente c’era stato un vertice tra gli ambasciatori di Moro e di Berlinguer, Tullio Ancora e Luciano Barca, in cui i comunisti erano ritornati a sottolineare la loro indignazione per la conclusione della crisi e a minacciare di non votare la fiducia al governo. Il presidente della Dc aveva trascorso una parte del pomeriggio del 15 marzo nello studio di via Savoia 88, una strada elegante del quartiere Trieste, tra piazza Fiume e viale Regina Margherita, palazzi borghesi di inizio secolo e villini liberty. La segreteria occupava otto stanze al primo piano, con le carte, i faldoni, gli appunti, i ritagli. Qui Moro si ritirava a lavorare, a volte faceva lezione ai suoi studenti universitari e riceveva gli ospiti riservati. Qualche settimana prima, il 18 febbraio, aveva visto Eugenio Scalfari, come scriverà il direttore di “Repubblica” nell’intervista postuma pubblicata sette mesi dopo. Era da dieci anni che non si incontravano, da quando Moro, presidente del Consiglio, nel 1968 aveva posto gli omissis sui documenti che avrebbero dimostrato l’innocenza di Scalfari, direttore dell’“Espresso”, e del giornalista Lino Iannuzzi, che avevano pubblicato la notizia sul tentato golpe del Sifar, il servizio segreto guidato dal generale Giovanni De Lorenzo. In quell’occasione Scalfari scrisse un violento articolo sull’“Espresso”: “Se saremo condannati la responsabilità del presidente del Consiglio sarà estremamente grave. La colpa sarà interamente e esclusivamente sua”.
Dieci anni più tardi, dopo due ore di colloquio, racconterà Scalfari, “eravamo già in piedi e mi mise una mano sul braccio, lui così schivo di contatti fisici. ‘Lei ha ancora del rancore per me per quella vecchia storia degli omissis,’ mi disse. ‘È vero,’ gli risposi. ‘Lei in quell’occasione violò la Costituzione, perché rese impossibile l’esercizio della difesa dell’imputato che è un principio sacro per chi crede nella democrazia.’ ‘Ha ragione. Ma vede, c’è un altro principio nella Costituzione, ed è quello di tutelare lo Stato anche col segreto quando ciò sia indispensabile per garantirne la sicurezza. Io, come presidente del Consiglio, dovetti scegliere tra l’uno e l’altro principio. Comunque mi dispiacque molto d’esser stato costretto a fare quella scelta’ ”. La ragion di Stato, il diritto di difesa dell’imputato, il processo.
Prima di congedare Scalfari, Moro gli aveva rivolto una piccola richiesta, di mitigare nella pagina degli spettacoli la critica a Forza Italia!, il film di Roberto Faenza appena uscito sul trentennio di potere democristiano. Un montaggio di immagini e sonori da cui i notabili di governo uscivano a pezzi. Moro aveva visto il film e riteneva alcune frasi della critica eccessive, non corrispondenti alla verità di un lavoro che pure era feroce con i capi della Dc. Scalfari si impegnò a pensarci, ma la pellicola di Faenza, con la sceneggiatura firmata dai giornalisti Carlo Rossella e Antonio Padellaro, avrà vita molto breve. Sarà ritirata dalle sale il 16 marzo, per non ritornare più. Ma Moro ne era rimasto talmente colpito da parlarne nel memoriale nel covo delle Brigate rosse: “Per chi abbia visto Forza Italia!, fa impressione il linguaggio, a dir poco, estremamente spregiudicato, che i democristiani usano al congresso tra un applauso e l’altro all’on. Zaccagnini. Sono modi di dire e di fare che un tempo sarebbero apparsi inconcepibili. Oggi sono accettati e mettono in moto una sovrastruttura politica che presumibilmente, poiché le cose non nascono a caso, corrisponde all’esigenza di una parte almeno della società italiana di oggi”.
In quella scena, alla fine del film di Faenza, i delegati del congresso democristiano vengono alle mani, si affrontano come nemici che non hanno nulla in comune, si scambiano i vaffa (“ma vaffanculo! Ma rivaffanculo!”), eppure sono nello stesso partito. È l’immagine del tutti contro tutti, dell’inimicizia e del rancore che comincia in quegli anni ad attraversare la società italiana, fino a toccare i suoi vertici. Nel cambiamento del linguaggio, il prigioniero Moro vedeva la manifestazione di una nuova spregiudicatezza che corrispondeva a una mutazione della società italiana. Lo disse a Scalfari nel caldo del suo studio di via Savoia, lo ripeté nella costrizione cui lo legarono le Brigate rosse, lo indicò forse a chi quarant’anni dopo prova ancora ad analizzare le cause della nascita di un partito che si chiama Forza Italia e di un altro nato da un vaffa-day, entrambi tutt’altro che estranei a quella spregiudicatezza, perché “le cose non nascono a caso”.
Nella riservatezza dello studio di via Savoia, lontano dal centro e dai palazzi, si avvicendavano in quei mesi i direttori dei principali giornali italiani e si segnalavano strani movimenti. Il 25 novembre, quattro mesi prima, il direttore del “Corriere della Sera” Franco Di Bella, mentre giungeva in macchina in visita da Moro, era stato affiancato da due giovani in moto con il volto coperto dal passamontagna e con una pistola nel borsello. Era stata la scorta ad accorgersi dell’arma e a dare l’allarme. I due erano scappati, Di Bella aveva raccontato l’episodio al presidente della Dc e ne aveva ricevuto una confidenza: “Viviamo momenti terribili, siamo come nelle catacombe”.
Il dirigente della Digos Domenico Spinella, dopo mesi di indagini, aveva fatto sapere che si trattava solo di due delinquenti comuni. I giornalisti del “Corriere” Antonio Padellaro e Roberto Martinelli, nel loro libro uscito pochi mesi dopo il sequestro, a distanza di quarant’anni ancora il più informato, raccontano che ventiquattro ore prima di via Fani il capo della polizia Giuseppe Parlato era andato in via Savoia per rassicurare Moro sulle indagini, promettendo che in ogni caso dal giorno dopo la sorveglianza sarebbe stata rafforzata. Decenni dopo è spuntata dagli archivi della polizia una relazione di Spinella, in cui si parla di un incontro riservatissimo nello studio di Moro la sera del 15 marzo.
Il giorno prima di via Fani un alto vertice della polizia di Stato, a nome del suo capo, andò nella stanza del presidente della Dc per parlare della sicurezza di Moro, di nuove misure da far partire due giorni dopo, il 17 marzo. “Com’è noto alla S.V., la mattina del 16, mentre ero nel Suo Ufficio, apprendemmo la notizia dell’agguato di via Fani, per cui ci recammo immediatamente sul posto e non ebbi, quindi, la possibilità di provvedere al servizio,” si legge nella relazione di Spinella inviata al questore di Roma Emanuele De Francesco e al capo della polizia. Ma se c’erano queste preoccupazioni, perché la Digos si attivò per rafforzare la vigilanza in via Savoia e non partì invece, com’era logico, dalla scorta di Moro e dalla consegna di un’auto blindata al presidente della Dc?
Non è l’unico interrogativo che nasce dall’attivismo del dottor Spinella nei minuti che precedono la strage del 16 marzo, dall’immagine sconfortante di due uomini di vertice degli apparati di sicurezza che discutono di come tutelare in modo più efficace la persona di Moro mentre arriva la notizia del suo rapimento.
Quella sera Moro andò nella sede del partito in piazza del Gesù per parlare con Zaccagnini della conclusione affannosa della crisi, ma non lo trovò. Il segretario della Dc era uscito. Zac era molto amareggiato, aveva riunito i suoi collaboratori più fidati nel centro studi del partito, in via della Camilluccia, poco lontano dall’abitazione di Moro, a cento passi da via Mario Fani, e si era sfogato sulla mancanza di rinnovamento della squadra di governo, non escludendo di dimettersi. Un altro potenziale punto di crisi.
Le ultime ore del 15 marzo erano segnate dall’incertezza. La sera Moro fece arrivare l’ultimo messaggio al segretario del Pci Berlinguer, tramite il solito canale, il consigliere Tullio Ancora che ne parlò di nuovo con Luciano Barca: il presidente della Dc capiva l’inquietudine dei comunisti, ma si faceva garante dell’operazione, come aveva assicurato un mese prima, incontrando in segreto Berlinguer a casa di Ancora. Era lui, la sua persona, a reggere il passaggio, il primo governo sostenuto in maggioranza dal Pci dopo più di trent’anni. Più carico di ambiguità che di slancio.
Il sistema politico era alla vigilia della svolta tessuta da Moro, ma più che di un’apertura – come era avvenuto negli anni sessanta con il primo centro-sinistra –, c’era la sensazione di un soffocamento, di un’asfissia. Di paura dell’ignoto politico, e di quel che poteva avvenire e che non era stato calcolato, una strozzatura, un imprevisto, qualche forza non valutata nella sua capacità di reazione. “Sì, Moro aveva paura,” mi dice Marco Follini che in quel momento aveva 23 anni, era il segretario del Movimento giovanile democristiano e aveva accesso alle direzioni del partito, ma soprattutto era un allievo politico di Moro, di casa in via Savoia. Suo papà Vittorio era giornalista e direttore dell’agenzia della piccola corrente morotea Progetto, il portavoce di Moro Corrado Guerzoni un maestro politico e amico di una vita, lo seguirà in tutta la sua carriera politica, fino alla vice-presidenza del Consiglio con Silvio Berlusconi, breve, travagliata e interrotta bruscamente con reciproco sollievo. Della paura di Moro, Marco non mi aveva mai parlato prima, sembrava nascosta sotto l’agiografia del coraggio del leader.
Mi dice Follini: “Di paura mi scrisse lui, per negarla, in una lettera che mi mandò qualche settimana prima, il 5 febbraio. Ce n’è traccia nella bella biografia di Moro dello storico Guido Formigoni: ‘Con la Dc convinta e solida, anche il contatto, che si sta rivelando necessario, nella situazione attuale, con il Partito comunista, non dovrebbe fare tanta paura’. Quel giorno, il 5 febbraio, è una domenica. Moro mi risponde a un biglietto di auguri di Natale che gli ho spedito più di un mese prima. Ma questo era l’uso del tempo dell’epoca. Nessuna immediatezza, nessuna fretta, si poteva lasciare un biglietto sulla scrivania ad accumulare polvere, poi, però, si doveva rispondere. La navigazione di Moro procedeva tra due scogli. Da un lato c’era la remora dei democristiani, che in gran parte non volevano un ‘contatto’ più ravvicinato con i comunisti, dall’altro c’era la spinta dei comunisti, che pretendevano un compromesso ‘storico’, non un governo ma una svolta epocale, un esperimento politico destinato a mutare la politica delle democrazie occidentali. La soluzione che si stava cercando di dare alla crisi per i dc era un passo troppo lungo, per i comunisti un passo troppo corto.
“E Moro si trovava appunto lì, al bivio tra queste due diverse strategie, chiamato a una difficile, forse impossibile quadratura del cerchio. Per questo Moro si dedicava con tanta meticolosità a spiegare, chiarire. E affrontava la grande questione di quei giorni che non è mai finita nelle analisi e nei libri di storia: la paura. Quell’accenno che gli era sfuggito nella lettera era in fondo la chiave dell’enigma che Moro stava cercando di sciogliere. Perché in quei giorni la paura era diffusa per ogni dove. Riguardava l’economia (l’inflazione a due cifre), l’ordine pubblico (il terrorismo), le relazioni internazionali (la Guerra fredda) e soprattutto la politica. Avevano paura i democristiani che si affidavano a Moro, avevano paura i comunisti, che temevano di finire intrappolati. E una certa paura si era fatta largo anche nell’animo di colui che appariva come il demiurgo della crisi”.
La giornata del 15 marzo stava finalmente volgendo al termine, il Presidente era tornato a casa, in via del Forte Trionfale. Moro non aveva mai perso un’antica abitudine, guardare i quotidiani in serata, quando le tensioni della mattina si erano già rivelate nella loro futilità. Una conversazione con la figlia Agnese, Agnesina, su una questione familiare che gli stava a cuore, uno scambio con il figlio Giovanni. Il Presidente stava leggendo Il Dio crocefisso del teologo protestante Jurgen Moltmann, poi andò a dormire. Il giorno dopo sarebbe stato un giorno importante.
Questa specie di rivoluzione
Sfoglio i giornali del 16-M, come ha fatto Moro subito dopo essere salito in macchina, una 130 blu, ed essersi seduto sul grande sedile posteriore, alle spalle del carabiniere Domenico Ricci che guida e del maresciallo Oreste Leonardi, il suo capo scorta. Vado a cercare come prima cosa la pagina dei cinema, che attirava all’epoca la mia attenzione di bambino. In prima visione Incontri ravvicinati di Spielberg, La mazzettadi Sergio Corbucci con Manfredi e Tognazzi. Costava 2500 o 1600 lire, nelle locandine c’era l’avviso: si consiglia di vedere il film dall’inizio. La “Stampa” apriva con la notizia dell’offensiva dell’esercito israeliano contro l’Olp nel Libano del Sud e con una corrispondenza del principe dei giornalisti politici Vittorio Gorresio da Parigi sul secondo turno delle elezioni legislative in Francia, con la gauche favorita. C’era un ritratto del giudice Guido Barbaro, il presidente del Tribunale di Torino nel primo processo ai capi delle Brigate rosse: L’edificio è in rovina, ma c’è sempre un giudice sulla torre di vedetta. C’era la pubblicità degli Autovox tv color, in vista dei Mondiali di calcio in Argentina il mercato della tv a colori aveva preso il volo. La partita di Coppa dei campioni della sera prima, Juventus-Ajax, 4-1 dopo supplementari e rigori, che per i bianconeri significava superare la finale persa contro gli olandesi cinque anni prima, con la foto di Roberto Bettega nell’area di difesa olandese e i due rigori parati da Zoff, “l’aureola di san Dino sembra salire e riempire l’intero cielo dello stadio,” scriveva Giovanni Arpino. Papa Paolo VI, ammalato, si era affacciato dal balcone.
Sulla prima pagina dell’“Unità” c’era lo scandalo Lockheed, “uno squallido panorama di traffici e di illegalità”, la notizia che le emittenti televisive locali erano quadruplicate in 18 mesi, da 65 a 293, il rapimento sotto casa a Roma del noto costruttore Angelo Appolloni, aggredito e picchiato selvaggiamente, il congresso provinciale della Fgci dell’Aquila, I giovani comunisti: vincere la schiavitù del non lavoro. Gli interventi e la conclusione di D’Alema.
Anche “Repubblica” parlava di tv locali: Oggi va in onda lo scudo crociato. “L’85-87 per cento dell’etere italiano sarebbe in mano alla Democrazia cristiana,” scriveva Gabriele Porro. Anche se nuovi protagonisti premevano per entrare: “L’ultima grossa realtà da segnalare è Telemilano-Canale 58, di proprietà dell’industriale edile Berlusconi che si varrà della collaborazione di Mike Bongiorno”. (Berlusconi, in realtà, si era già fatto conoscere dal pubblico del quotidiano di Scalfari, venerdì 15 luglio 1977, con il titolo a tutta pagina: Quel Berlusconi l’è minga un pirla. Una lunga intervista a Mario Pirani in cui il giovane costruttore, presidente di Edilnord, racconta il suo rapporto con la politica: “Vede, io sono un pratico, ma anche un sognatore: spero che venga fuori una nuova classe politica senza cadaveri nell’armadio, le mani pulite, poche idee ma chiare, capacità di farsi capire in modo comprensibile… Mi impegnerò per loro non certo pagando tangenti, ma mettendo a disposizione i mass-media. In primo luogo Telemilano, che sto riorganizzando e che diventerà un tramite tra gli uomini politici che dimostreranno di non avere divorziato dall’economia e dalla cultura e l’opinione pubblica”. E quell’inciso sinistro, terribile: “Sono politici che si sanno presentare in modo chiaro e immediato, facendosi capire dalla gente, e non come Moro, che ogni volta che apre bocca ci vuole un esercito di esegeti per interpretarlo. Questi capi storici hanno il culo per terra ma ingombrano la porta”. Ogni volta che rileggo queste parole sento il gelo. Tra poco, molto poco, qualcuno si sarebbe occupato di sgombrare la porta. A vantaggio dei politici che si sarebbero presentati sulla scena parlando facile, chiaro, immediato. Il linguaggio della spregiudicatezza, “esigenza di una parte della società italiana”, intuita da Moro nel covo delle Brigate rosse.)
Passo alle pagine di politica. Per decenni si è sostenuto che Moro fu rapito alla vigilia di una svolta storica, ma a leggere i giornali della mattina del 16 marzo l’operazione sembrava già fallita. Stamane il discorso di Andreotti, titolava l’“Unità”. In piccolo: “Nominati i sottosegretari. Tra gli esclusi Gava”. Nel pezzo si parlava di “mancato rinnovamento” e di “scelta travagliata”. Gli altri giornali davano conto del rischio di una crisi per un governo che non aveva ancora ottenuto la fiducia parlamentare. Suspense per Andreotti. Ancora incerto il voto del Pci, apriva “Repubblica”. Il quotidiano di Eugenio Scalfari quella mattina era il più deciso a scommettere che alla fine il sì del Pci non ci sarebbe stato. “Il Pci giudica le anime morte,” spiegava il notista politico Fausto De Luca. “La tentazione di dire altolà è assai forte tra i deputati comunisti indignati, arrabbiati e anche umiliati per lo schiaffo della Dc e l’ipotesi dell’astensione anziché del voto favorevole è accolta a ogni livello.”
UN ATOMO DI VERITA’ – FELTRINELLI 2018
di Antonio Gentile