Mentre in Italia infuriano le polemiche sugli sviluppi della crisi politico-istituzionale, nata in primo luogo sull’adesione o meno alla moneta unica, in Germania ci si divide fra chi tira un sospiro di sollievo e chi, in previsione di altri possibili futuri scossoni, studia un piano di uscita dall’euro. Non solo per paesi in difficoltà come l’Italia, ma anche per la Germania stessa, se dovessero verificarsi le condizioni.
Nonostante un’economia che va a pieni giri, con la crescita del PIL al 3%, la disoccupazione al 3,6% ai minimi da 40 anni ed un surplus commerciale record che sfiora i 300 miliardi di €, i maggiori economisti tedeschi sono assai preoccupati per le sue sorti. La minaccia più immediata? Che il dibattito sulle riforme dell’Unione monetaria prenda una piega concreta verso la condivisione dei rischi, grazie soprattutto alle (timide) pressioni francesi e data l’inspiegabile assenza dell’Italia. Infatti, una riforma dell’Eurozona anche solo debolmente risk-shared che aumentasse (di poco) i trasferimenti di risorse verso i Paesi periferici vorrebbe dire rinunciare al comodo status quo attuale, nel quale l’industria tedesca può sfruttare la robusta ripresa del mercato europeo interno per le proprie esportazioni a prezzi ultra-competitivi.
Ma in Germania c’è effettivamente chi continua a fare i conti con l’Italia in termini poco lusinghieri e batte ormai da due anni sul tasto dell’italese. Più che un «cigno nero», un destino inevitabile. Ad esempio Hans-Werner Sinn, presidente del prestigiosi pensatoio Ifo, che può vantare una notevole influenza sul governo di Berlino. Nella scorsa primavera firmò un articolo sul Die Welt con due colleghi molto influenti (Clemens Fuest e Christoph Schmidt) per spiegare un piano di emergenza di uscita dall’Euro.
La seconda ipotesi è che i paesi del Nord Europa «diventino più cari. È la politica della Banca Centrale Europea di dare gas per fare aumentare l’inflazione verso il 2% nella speranza che nei paesi del Nord sia ancora più alta, lasciando indietro i paesi del Sud. Potrebbe funzionare, ma i tedeschi sono pronti ad accettare questa inflazione intorno al 4% con gli italiani a zero?». La risposta è no. La terza possibilità è la condivisione europea dei rischi. Quindi le tensioni sulle finanze pubbliche italiane risolte «insieme» dagli stati dell’Ue così come i salvataggi delle banche. Di questa opzione fa parte anche l’ipotesi minima, una delle richieste dell’Italia: la garanzia europea sui depositi bancari.
Al momento, infatti, non è prevista alcuna procedura di questo tipo, indipendentemente da chi la rivendichi. Ci si pone dunque il problema di cosa dovrebbe accadere nel caso in cui un Paese, per scelta più o meno volontaria, non appaia più in grado di restare all’interno della moneta unica. Si presume che un Paese dovrebbe passare comunque per l’uscita dalla Ue: gli accademici tedeschi – riporta Il Messaggero – vogliono invece che sia prevista esplicitamente e direttamente questa opzione, in modo che possa essere applicata a Paesi in difficoltà, ma anche alla stessa Germania qualora si prospetti un assetto europeo troppo basato sulla condivisione dei rischi degli altri, come da spinte dei paesi dell’Europa meridionale. Insomma qualcosa che somiglia, dalla prospettiva tedesca, a quello stesso piano B di Paolo Savona che in questi giorni è entrato nell’attualità politica italiana.
A dimostrazione del fatto che la politica si agita tanto, ma di fronte alla finanza decide ben poco, non si tratta solo un tema politico, ma anche e forse soprattutto finanziario. Tutto ruota intorno a Target 2, la piattaforma dell’Eurosistema sulla quale passano i flussi di pagamento tra le banche europee. Il numero due della Bce Constancio ha confermato recentemente quanto aveva già detto lo stesso Mario Draghi all’inizio dello scorso anno: in caso di uscita dall’Unione monetaria, un Paese dovrebbe regolare i conti. L’Italia ha uno sbilancio di circa 400 miliardi, mentre Berlino al contrario ha una posizione positiva per circa 900: questi squilibri dovrebbero essere saldati, con evidente vantaggio per i Paesi forti.
I firmatari del documento – riporta sempre Il Messaggero – includono Jürgen Stark, già membro del board della Bce e Hans-Werner Sinn, già a capo del think tank Ifo. Nel mirino ci sono soprattutto le recenti proposte del presidente francese Marcon e del numero uno della commissione europea Juncker.
Non piace tutto ciò che può andare in direzione di una condivisione dei rischi all’interno di Eurolandia. Dal punto di vista dei firmatari avrebbe l’effetto di deresponsabilizzare ulteriormente i Paesi meno attenti all’equilibrio dei conti e di fermare il processo di eliminazione dei crediti inesigibili delle banche.
Dunque no al Fondo monetario europeo, no al ministro delle Finanze e no ad un sistema comune di garanzia dei depositi. Ma ce n’è anche per Mario Draghi, la cui politica monetaria rappresenterebbe già una forma di monetizzazione del debito, ben al di là di quanto prevede lo statuto della Bce. E la monetizzazione del debito per molti in Germania è il peccato mortale della politica economica.
I tedeschi che vogliono un’altra Europa
Anche in Germania, tuttavia, c’è chi caldeggia cambiamenti tangibili nell’architettura comunitaria per evitare uscite unilaterali dalla moneta unica.
Il presidente dell’Istituto economico tedesco Diw, Marcel Fratzscher, in un’intervista al RedaktionsNetwerk sollecita con urgenza il governo tedesco sulle riforme europee proposte da Emmanuel Macron, rilanciando l’allarme sulla circostanza che “le dimensioni e l’importanza dell’Italia” renderebbero una crisi a Roma molto problematica anche per la Germania.
“Se l’Italia anche solo si avvicina allo squilibrio è troppo grande per essere salvata”, afferma Fratzscher, uno degli economisti molto comprensivi con le esigenze dei paesi dell’Europa del Sud negli anni della crisi, e vicino a tesi keynesiane.
“La Bce non potrà dire: c’è forse una volontà politica di uscire dall’euro, ma noi eviteremo che il governo lo faccia”, aggiunge. E se la Bce non può stabilizzare l’Italia, è il ragionamento, “non può farlo nessuno”. “Che cosa aspettiamo allora a svegliarci e a realizzare le riforme di Macron?”. Il governo tedesco dovrebbe finalmente muoversi, “mettere un piano concreto sul tavolo e dire cosa voglia”, è la conclusione.
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di Antonio Gentile