L’opera di Valentina Soria contiene così tanta umanità che risulta difficile inquadrarla in una categoria, la saggistica, che fa pensare subito a qualcosa di accademico e professionale; eppure, anche da questo punto di vista ha tutte le carte in regola. L’autrice spazia dal campo amministrativo e organizzativo a quello psicologico e perfino spirituale. L’essere umano deve essere rispettato e aiutato fin dentro quel contesto in cui anche il sole fatica ad infilare lo sguardo: il carcere. L’opera è incentrata in particolare sulla Casa Circondariale di Lauro, ad Avellino, che sta portando avanti un progetto di recupero dei detenuti attraverso il loro coinvolgimento in attività o, addirittura, professioni altamente specializzate che riescono a trasformare completamente coloro che vi partecipano. Un testo che insegna a conoscere e comprendere questo mondo fuori dal mondo.
“Viaggio nel penitenziario di Lauro quale laboratorio di creatività e sperimentazione”
Umanesimo 2.0 nel libro di Valentina Soria “La Leadership nella Pubblica Amministrazione. Viaggio nel penitenziario di Lauro quale laboratorio di creatività e sperimentazione”
di Luigi Pasquariello
Non è mai facile avvicinarsi ad una tematica tanto delicata per le sue molteplici motivazioni come quella relativa al reinserimento nel consesso sociale e nel tessuto produttivo degli ex detenuti. Una materia talmente incandescente da ustionare chiunque vi si accosti, a prescindere dalle sue intenzioni e finalità, a causa di quelle opposte fazioni, “l’une contro le altre armate”, che immediatamente si coagulano intorno a tutto ciò che riguarda l’universo carcerario. Sono molti i progetti che coinvolgono detenuti minorenni, adulti e donne che utilizzano il veicolo dell’apprendimento di un mestiere o lavoro per favorirne il ritorno nella società civile dall’Oltretomba della marginalizzazione sociale. Anche l’arte non poteva non occuparsi di un argomento che da sempre titilla la creatività e la sensibilità di artisti, poeti, cineasti, ecc. L’ultimo illuminante esempio è senza ombra di dubbio il film dei fratelli Taviani Cesare deve morire, premiato con l’Orso d’Oro a Berlino nel 2012, che vede al centro dell’azione l’allestimento dello scespiriano Giulio Cesare da parte dei detenuti di Rebibbia.
L’arte, dunque, come emendatio e lavacro delle proprie colpe ma anche come strumento di valorizzazione di un capitale umano, la popolazione carceraria, comunque colpevolmente inespresso, esercitando in tal modo una funzione di supplenza delle stesse istituzioni che, secondo il dettato costituzionale, non dovrebbero limitarsi a privilegiare il solo versante afflittivo della pena nella loro azione repressiva. Non a caso lo scrittore austriaco Karl Kraus sosteneva in un suo noto aforisma che: “ L’arte è ciò che il mondo diventerà, non ciò che il mondo è “. Eppure talvolta il registro dell’immediatezza, il dare un volto ed un nome ai reclusi nelle patrie galere, raccontarne le storie, per quanto dolorose e costellate di errori, costituiscono, più dei freddi ed aridi numeri delle statistiche ufficiali sulla recidività degli ex detenuti, la strategia narrativa più efficace per rendere edotti circa il successo o meno di un progetto educativo finalizzato alla riabilitazione di un segmento specifico della popolazione carceraria.
E’ il caso dell’interessantissimo “La Leadership nella Pubblica Amministrazione. Viaggio nel Penitenziario di Lauro quale laboratorio di creatività e sperimentazione di Valentina Soria, giovane giornalista posillipina, che ci conduce dietro le sbarre dell’I.C.A.TT. (Istituto a Custodia Attenuata per Tossicodipenenti di Lauro), in provincia di Avellino, dove i detenuti, 50 tossicodipendenti con alle spalle in media 5 carcerazioni e provenienti da un contesto familiare fortemente deprivato, sotto l’egida della Direzione dell’istituto penitenziario, in collaborazione con associazioni del Terzo Settore, frequentano una serie di laboratori, da quello di falegnameria e fabbro a quello per la lavorazione della ceramica in aggiunta a quelli di più alta qualificazione dedicati all’informatica ed alle produzioni audivisive, i cui prodotti vengono immessi sul mercato tradizionale od alienati attraverso i canali informali del commercio equo e solidale, allo scopo precipuo di garantire agli allievi più meritevoli sbocchi occupazionali.
Estremamente significativa anche la scelta di puntare sull’insegnamento di mestieri manuali quali vettori del rapido reinserimento nella società civile di reclusi ed ex con un passato difficile alle spalle e con una formazione scolastica discontinua, incompleta e che al massimo ha raggiunto il livello dell’istruzione obbligatoria. Un indirizzo del progetto che sembra informarsi ad un’acuta osservazione di Franz Kafka il quale amava dilettarsi nel tempo libero in piccoli lavori di falegnameria perchè “ il lavoro intellettuale strappa l’uomo dalla comunione umana mentre il lavoro manuale lo porta verso gli uomini “. Sintesi, invece, realizzata all’I.C.A.TT. di Lauro visto che oltre ai sopracitati laboratori sono attivi anche uno teatrale ed un altro sulla scrittura in quanto “convogliare nella scrittura le ansie, le angosce, le paure che caratterizzano la vita di un detenuto è già il primo passo verso il superamento che vede nella comunicazione il suo principale strumento. Il detenuto diventa protagonista in prima persona di un processo attivo che nasce nella sua mente, che stimola la sua creatività e abilità se opportunamente guidato e incentivato in una spirale virtuosa” (p. 235 ).
Nondimeno un saggio accademico in piena regola, con tanto di corredo di tabelle sinottiche, diagrammi statistici, note biografiche e box esplicativi, eppure tutto ciò non spaventi il lettore dato che la scrittura è talmente lieve e perspicua – tipica di chi per professione è abituata a comunicare e farsi capire dal colto e dall’inclita o, per dirla come gli statunitensi, anche dal lattaio dell’Ohio – che le pagine scivolano via tra le mani come quelle di un avvicente romanzo picaresco. L’autrice dà prova, pertanto, di aver recepito la lezione di Bertrand Russell il quale, sarcasticamente, invitava i giovani cattedratici a scrivere in un linguaggio comprensibile solo a degli iniziati, gli eletti membri di quelle nicchie di erudizione di cui è punteggiata la comunità accademica, per mettere alla berlina quel luogo comune dei sedicenti intellettuali che vuole la chiarezza fare a pugni con la complessità.
Troppo esiguo lo spazio di questa recensione per sviscerare nel dettaglio una tale opera di così ampio respiro, strutturata in una corposa prima parte di doveroso inquadramento teorico visto come propeduetico alla disamina di un fiore all’occhiello del sistema penitenziario italiano, l’I.C.A.TT. di Lauro, perciò mi soffermo su pochi aspetti, quelli che considero i più qualificanti.
Prendendo le mosse dalla ricostruzione genealogica della P.A. italiana, con il relativo impianto normativo di riferimento sedimentatosi nel corso degli anni, Valentina Soria ravvisa nelle burocratizzazione e nell’eccessiva riverenza verso gerarchie sclerotizzate ed ammuffite l’origine dei mali endemici che affliggono la P.A. italiana; la cui panacea è rappresentata dalla disponibilità da parte dei livelli apicali dell’Amministrazione a concedere ad ogni singolo lavoratore un margine di discrezionalità, di autonomia e di creatività incentivandolo in tal modo ad esplorare le proprie potenzialità al fine di valorizzarle riscoprendosi così un coprotagonista e non più un mero esecutore di decisioni prese nelle alte sfere.
Cruciale, però, è anche ricreare un habitat lavorativo che coinvolga emotivamente i lavoratori in linea con i contributi teorici dei più importanti esponenti di quel filone di ricerca cha va sotto il nome di intelligenza emotiva che, tra l’altro, presenta molte assonanze con le più recenti acquisizioni delle neuroscienze, in particolare con le teorie del neurologo Antonio Damasio, tra i più autorevoli ed influenti al mondo, imperniate sull’inseparabilità, a livello neuroanatomico e neurobiologo, tra le componenti emotive ed i processi decisionali. Forte di tale armamentario concettuale, l’autrice si inoltra nei tortuosi meandri del sistema carcerario facendosi strada e luce con il solo faro di una concezione salvifica, quasi “soteriologica”, del lavoro, con il suo substrato di conoscenze, che spinge a riconoscere il diritto al lavoro a tutti, anche a chi paga il fio delle proprie colpe per aver trasgredito le regole della società civile.
Questo perché il saggio di Valentina Soria non è il semplice resoconto del successo di un modo alternativo di interpretare la detenzione bensì una chiamata in correità della c.d. società “sana” : è come se l’autrice interpellasse la coscienza di ognuno di noi per indurci suasivamente a guardare con occhi diversi al carcere, a non considerarlo più un ricettacolo di relitti umani giunti all’ultima stazione della loro grama esistenza e per questo ivi parcheggiati in attesa del giudizio…finale; ma come ad un luogo ricco di fermenti vitali e potenzialità, popolato da uomini in cerca di riscatto attraverso quella che io definisco l’ ”epistemologia della liberazione”, il padroneggiamento di saperi come via maestra verso la riabilitazione dei detenuti. E così si perfeziona la transizione dall’homo homini lupus di matrice hobbesiana all’homo sum: humani nihil a me alienum puto (sono un uomo e non ritengo estraneo a me nulla di ciò che è umano ) del drammaturgo latino Terenzio.
Tuttavia il vero fil rouge che attraversa come un fiume carsico questo saggio dalla prima all’ultima pagina rinvia alla dimensione socio-politica, che accomuna ristretti e non, dal momento che ciascuno di noi è sottilmente “sobillato” a divellere la propria gabbia dell’indifferenza e dell’oblomovismo esasperato tipici di una società atomizzata per indirizzare il corso della propria esistenza senza scivolare nell’apatia ed abulia perché convinti dell’impossibilità di modificare un destino già scritto, ineluttabile. E’, dunque, un fendente ben assestato a quel fatalismo che si compendia nel popolare proverbio “chi nasce tondo non può morire quadro”. Valentina Soria, al contrario, ci dimostra come chi nasce “tondo” possa morire non solo “quadro” ma anche “icosaedro” e modellarsi fino ad assumere la sagoma di un velivolo biposto, la cui carlinga è tutta in legno, il Social Flight One, progettato e realizzato da tre detenuti dell’I.C.A.TT. di Lauro.
Una fede incrollabile nelle capacità “taumaturgiche” del lavoro, un fervore morale, e non moralistico, un sincero afflato idealistico e soprattutto una simbiotica aderenza al destino da stigmatizzati ab aeterno dei reclusi talmente evidenti che l’autrice non si pone come un diaframma tra due mondi agli antipodi, quello carcerario e quello al di là delle sbarre, bensì come un’invisibile interfaccia che li mette in comunicazione; la sua scrittura nella parte dedicata al case study, infatti, è talmente asciutta, senza alcuna concessione al barocchismo fine a se stesso ed alla vuota ridondanza, “l’eterno ritorno dell’identico” di echiana memoria, che sembra quasi liquefarsi per sublimarsi nella voce dei protagonisti. Più che la puntuale analisi, quindi, del loro riscatto è una sorta di dialogo diretto che si instaura tra il lettore ed i protagonisti, carcerati e personale carcerario, che si raccontano in prima persona (Direttrice, Direttore facente funzione, educatrice, detenuti, ecc. ) “rispondendo” ai prevedibili quesiti del lettore. Mirabile esempio di quel procedimento che Ortega y Gasset considerava essere il fulcro dell’azione narrativa del grande romanziere russo Lev Tolstoj, l’autopsia.
Non certo nell’accezione corrente, e purtroppo dilagante nei media, di esame necroscopico ma di quella etimologica di “guardare con i propri occhi”, ossia delegare al lettore il compito di raccogliere durante la lettura, senza ammannirli come una tavola imbandita, tutti gli elementi disseminati qua e là nella narrazione utili per farsi una propria idea del plot, della caratterizzazione dei personaggi, della loro evoluzione, della sottostante “filosofia” dell’autore. Ebbene anche nel libro di Valentina Soria ritroviamo un’impronta di tale stile discorsivo proprio perchè l’intento dell’autrice non è quello di imporre, attraverso il filtro della narrazione di un commendevole progetto di rieducazione sociale di detenuti, il proprio punto di vista circa un pilastro dell’architettura sociale, il sistema di prevenzione e repressione della devianza, né di indottrinare semmai di scuotere, destare le coscienze intorpidite dell’opinione pubblica. In pratica suo obiettivo è quello di gettare un sassolino nelle acque stagnanti e limacciose dell’attuale dibattito, di indurre di conseguenza il lettore a mettere in discussione le proprie certezze anchilosate inoculandogli, quindi, quel germe-demiurgo di ogni cambiamento che è il dubbio sulla scorta dell’insegnamento di Alessandro Manzoni: “ E’ meno grave agitarsi nel dubbio che riposare nell’errore “ . D’altronde anche Bertrand Russell rintracciava la radice più profonda dei mali che angustiano il mondo contemporaneo proprio nel fatto che le persone stupide hanno sempre certezze mentre quelle intelligenti solo dubbi.
Una lettura, pertanto, catartica, quella del libro di Valentina Soria, in quanto depura da quelle incrostazioni ideologiche, da ubbie e pregiudizi che obnubilano fino ad ottunderla la mente di chi si approccia alla tematica del recupero e della riabilitazione dei detenuti attraverso il lavoro.
Pietà, compassione, empatia verso l’imputato che per il filosofo Emmanuel Lèvinas in una democrazia matura ed in un vero stato di diritto dovrebbero sempre albergare nell’animo del giudice nel momento stesso in cui si accinge ad emanare una sentenza di condanna, anche al massimo della pena. Quello stesso spettro di sentimenti che ha ispirato l’autrice di questo stimolante libro nell’accostarsi scevra di condizionamenti e sovrastrutture ideologiche alla realtà carceraria restituendocela nella sua essenza, quindi secondo moduli narrativi diversi dagli schemi e stilemi stereotipati cui ci ha abituati la cronaca, proprio perché il suo fine, che traspare in maniera chiara dalle pagine, è quello di indagare per capire e far capire piuttosto che giudicare.
Motivo per cui tale libro si fa apprezzare al punto tale che Elio Vittorini lo avrebbe sicuramente incasellato tra quelli da lui prediletti in quanto, al contrario di quelli la cui lettura non ti stimola ad interrogarti confermandoti semmai nelle tue inveterate convinzioni, ti offre un punto di vista, una prospettiva, un angolo visuale differenti tali da indurti, come lo stesso Vittorini, ad erompere in: “ Perdio, non avevo mai supposto potesse essere così “. Insomma, ci si dovrebbe augurare che un siffatto libro, dalla scrittura così scorrevole da leggersi tutto d’un fiato, incontrasse il favore di una vasta platea di lettori; tuttavia in un Paese come l’Italia dove vi sono più aspiranti scrittori che lettori per un autore/autrice, per di più esordiente, attirare l’attenzione di un pubblico distratto e tetragono alla lettura, specialmente quella più impegnativa, è, riprendendo l’esplicativa metafora di Giuseppe Prezzolini, come sperare di fare rumore gettando una piuma da una finestra. Eppure talvolta, per una fortunata congiuntura astrale, come suggerisce sempre Prezzolini, nella sua ondeggiante caduta verso il basso quella piuma può intercettare un raggio di sole rifrangendolo tanto da indurre tutti gli astanti a voltarsi in su a guardare. Chissà che questa sorte non arrida al libro di Valentina Soria.
In definitiva, la fatica letteraria di Valentina Soria andrebbe ponderata, vista la pregnanza della tematica lumeggiata, ma soprattutto letta attentamente dalla prima all’ultima pagina dal momento che, come consigliava Aleksandr Blok, il più grande poeta del simbolismo russo, in un appunto vergato sul proprio diario, è sempre opportuno leggere fino all’ultima pagina un libro anche se scritto in un linguaggio burocratico o partorito dalla penna di Ovsjaniko-Kulikovskij, esimio docente di linguistica comparata e di sanscrito, non propriamente la lettura più agevole ed accattivante; questo perchè dal mare magnum delle parole si può sempre pescare una perla e per quest’ultima, quindi, vale la pena di sobbarcarsi alla fatica di una lettura pedante, tediosa ed ostica. Orbene, nel caso del pregevole e meritorio libro di Valentina Soria si può essere certi di arpionare tante gemme da riepire un forziere!
Editoriale a cura del Vice Direttore Antonio Gentile