A cura di Dott. Angelo Sandri (Cervignano del Friuli/UD)
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Segretario politico nazionale della Democrazia Cristiana
Direttore Responsabile de < IL POPOLO > della Democrazia Cristiana.
< Viaggio nell’attuale sistema politico-parlamentare che la Democrazia Cristiana definisce corrotto ed illegale ! > (Parte 001)
Quando i dirigenti della Democrazia Cristiana (quella vera) affermano che questo sistema politico/parlamentare è corrotto ed illegale non lo fanno in maniera arbitraria o soltanto provocatoria ma – come suolsi dire – in punta di diritto, suffragando il proprio giudizio -anche politico . con dati inoppugnabili.
Ed in effetti si sta allargando la “coalizione” di forze politiche e partitiche che condivide questo “preambolo” politico/giuridico e si stanno sviluppando importanti collaborazoni che si sta cominciando a tradurre anche sul piano elettorale, così come si potrà evincere fin dal prossimo passaggio riguardante le elezioni dell’ottobre 2021.
Parimenti si sta irrobustendo la forte critica a chi mente saendo di mentire, a cominciare dalle forze politiche presenti nell’attuale Parlamento e che pretenderebbero di avere la “coscienza pulita” laddove invece sono i principali artefici di questo sfacelo ormai generalizzato ed i primi traditori di quei principi fondamentali della Costituzione della Repubblica italiana e che loro hanno ben tradito, perfettamente consci dei crimini che andavano compiendo.
Per questo è alquando utile ripercorrere le tappe di quanto è accaduto negli anni ed anche se il lavoro sarà non propriamente sintetico, il nostro giornale si è messo a disposizione per questa opera di approfondimento e di ricostruzione storico/giuridica che sarà di notevole ultilità a formarsi un giudizio compiuto sulla attuale situazione politico/parlamentare italiana.
Ci siamo avvalsi in questa ricorstruzione della preziosa collaborazione dell’Avvocato Nicola Russo di Taranto, nonchè dell’importante materiale che ci ha messo a disposizione e lo ringraziamo sentitamente per quanto maivalida ed importante collaborazione.
Nel nostro “viaggio” partiamo dall’ormai famosa Sentenza della Corte Costituzionale numero 1 del 2014 e sulla quale sono state scritte tantissime pagine importanti che hanno permesso di approfondirla in tutte le sue sfumature.
E ci avvaliamo abbondantemente anche di quanto ha chiosato con estrema precisione il Presidente Emerito della Corte Costituzionale Dott. Gustavo Zagrebelsky, con un suo celebre studio pubblicato anche in “Giurisprudenza costituzionale” e il cui titolo può essere richiamato – in forma pressochè riassuntiva – come: “Un Parlamento abusivo“.
<< Nell’ormai quasi sessantennale giurisprudenza della Corte Costituzionale, le pronunce segnate dal numero 1 di ogni anno sono sentenze, con pochissime eccezioni a questo consolidato concetto (tre, nel giudizio incidentale).
Dato il rapporto numerico preponderante a favore delle ordinanze, la prevalenza delle sentenze fa pensare a una scelta, consapevole o non consapevole che sia, che l’inaugurazione di ciascuna annata avvenga con la formula più solenne.
Se poi si facesse un confronto tra l’importanza delle materie trattate nei “depositi” aventi la medesima data, si constaterebbe facilmente che il numero 1 è riservato alla decisione ritenuta di maggior rilievo.
Dunque, il n. 1 è il numero dell’eccellenza !
La Corte Costituzionale, con questa numerazione, intende dimostrare di voler richiamare l’attenzione.
Il numero 17 o 314, per esempio, non avrebbero alcun significato simbolico.
Insomma, la Corte Costituzionale, assegnando il numero 1, si mostra – come suolsi dire – in “panni solenni”.
La sentenza n. 1 del 2013, circa la posizione costituzionale del Presidente della Repubblica italiana, e la sentenza n. 1 del 2014, riguarante il sistema elettorale del cosiddetto “Porcellum”, confermano il significato di questa scelta dei numeratori.
Con riguardo a questi due casi, si può aggiungere forse che, di fronte alla straordinaria importanza e problematicità delle questioni da decidere, si sia per così dire voluto “alzare la voce”.
“Ora parlo io”, sembrerebbe voler dire la Corte; “taglio il nodo una volta per tutte” !
Roma “locuta” e il chiacchiericcio taccia, già a partire dai comunicati ufficiali che anticipano in sintesi i contenuti delle decisioni; li fissano “ante litteram” nel dibattito pubblico e, fuori della cerchia degli specialisti, ne prendono il posto.
Considerazioni estrinseche, si dirà. Ma non del tutto. Che la sentenza del 2014 sia sotto diversi aspetti un acuto che si distacca dal tono sommesso della giurisprudenza costituzionale dei tempi normali, è l’opinione comune dei commentatori.
I tempi, infatti, non sono normali e la Corte ne risente. Nei tempi anormali, la normalità che si volesse per forza tenere ferma apparirebbe a sua volta un’anomalia.
Una sentenza com’è questa sarebbe stata impensabile in altri tempi. Una simile questione di costituzionalità, secondo gli standard di giudizio seguiti in passato, non sarebbe mai giunta alla Corte o, se vi fosse giunta, sarebbe stata bloccata sulla porta: “fictio litis”, assenza della “incidentalità”, discrezionalità del legislatore, natura legislativa della decisione, incertezza circa le conseguenze, e via dicendo.
Tutte queste remore sono state superate di slancio, in una decisione che, al di là delle forme esteriori, è forse quella più creativa tra tutte quelle prese dalla Corte costituzionale nei quasi sessant’anni di attività.
Questa è semplicemente una constatazione, non un giudizio: ciò che poteva apparire adeguato ai tempi della normalità costituzionale, del resto, può non apparire più tale in tempi di anormalità, o nel tempo d’una nuova normalità.
L’ammissibilità dell’esame prodotto, secondo la Corte Costituzionale.
Il difficile traguardo del procedimento aperto dalla Corte di Cassazione, giudice a quo, era la sottoposizione della legge elettorale al giudizio della Corte Costituzionale.
Si trattava di forzare i confini d’una “zona franca”, nella quale il controllo di costituzionalità sembrava precluso.
Le ragioni delle difficoltà stavano nelle caratteristiche del sistema d’instaurazione del giudizio di costituzionalità sulle leggi che è giudiziario, incidentale e a posteriori.
La prima caratteristica si scontrava con la difficoltà d’individuare un giudice davanti al quale si svolgesse un giudizio non “definibile” se non applicando la legge elettorale; la seconda, con la difficoltà di distinguere l’oggetto del giudizio dall’oggetto della questione di costituzionalità; la terza, con la difficoltà di concepire l’annullamento di una legge, come quella elettorale, la cui messa in opera determinava un fatto compiuto.
Per estendere l’operatività della garanzia costituzionale alle leggi elettorali sembrava, in passato, che fosse necessaria una riforma del sistema d’accesso al controllo di costituzionalità che introducesse per questo caso un’iniziativa non giudiziaria, non incidentale, a priori.
La Corte Costituzionale, su sollecitazione conforme della Corte di Cassazione, ha raggiunto il medesimo auspicato risultato, con una sentenza che pare equivalere a quella riforma.
La Corte Costituzionale ha tracciato una linea di separazione netta tra la vicenda processuale svoltasi davanti alla giurisdizione ordinaria e il giudizio di costituzionalità.
Operando in tale maniera, i problemi concernenti la legittimazione all’azione di accertamento (personalità, concretezza, attualità dell’interesse) nel giudizio “a quo” e quelli attinenti alla giurisdizione del giudice ordinario in materia elettorale, sono stati “coperti” con il richiamo alla figura processuale del “giudicato interno”.
Sulle relative questioni, pur essendo tanto il difetto d’interesse quanto la carenza di giurisdizione rilevabili d’ufficio, la Corte di cassazione ha ritenuto non potersi pronunciare. Esse erano già state definite nel grado d’appello e non erano state riproposte nel ricorso per cassazione.
“Tantum devolutum quantum appellatur”.
Si può, certo, discutere se a questo principio possa attribuirsi forza al punto che la sua applicazione comporti eventualmente l’alterazione dei caratteri del giudizio incidentale di legittimità costituzionale; se cioè quel latino modelli anche i giudizi di costituzionalità delle leggi.
La Corte, in questo caso, non se l’è chiesto, limitandosi a prendere atto che il riesame di tali profili d’inammissibilità doveva ritenersi “definitivamente precluso”. Precluso al giudice rimettente e, per conseguenza, anche alla Corte Costituzionale.
Grande rispetto, al punto non solo di rendere omaggio all’autonomia del giudizio a quo, ma anche di subordinare a questa l’ammissibilità del giudizio costituzionale, sia pure con la consueta ed elastica clausola di salvaguardia della “non implausibilità” delle motivazioni.
Cose analoghe possono dirsi a proposito dell’incidentalità (o pregiudizialità) e della rilevanza della questione, requisiti che la Corte ha ritenuto essere, nell’ordinanza di rinvio, oggetto di motivazione “ampia, articolata e approfondita”, tale quindi da precludere sue diverse e contrastanti valutazioni.
Ci si sarebbe potuti fermare qui, all’autonomia del giudizio a quo e alle sufficienti, non implausibili motivazioni dell’ordinanza di rimessione.
La Corte, invece, è andata oltre, affiancando alle ragioni procedimentali, cioè formali e strumentali, due argomenti sostanziali e finalistici. Precisamente: la tutela del diritto di voto, violato già dall’incertezza circa la legittimità della legge elettorale e il “principio di costituzionalità”, che non ammette zone franche, tanto più con riguardo alle leggi elettorali, di cui la Corte ritiene di dover spiegare al lettore, con ricca aggettivazione, l’importanza ai fini del corretto funzionamento della democrazia rappresentativa.
In questi ulteriori passaggi, emerge forse un dubbio circa la sufficienza o, se si vuole, circa l’incontrovertibile plausibilità della motivazione sugli aspetti procedurali della questione.
In sintesi: la Corte indica i fini buoni ai quali mira e, da questi fini, desume l’ammissibilità della questione.
In sostanza, una prospettiva sostanziale si accompagna a quella formale e, per così dire, la integra e l’orienta. Qualcuno, commentando, dirà che la sostituisce. Nel diritto processuale, le forme mirano alla protezione delle posizioni delle parti, non avendo il processo altro fine che la determinazione delle buone e cattive ragioni particolari che vi si confrontano. In altri termini, non esiste un fine esterno che riguardi il processo come tale, a cui le forme possano dirsi funzionalizzate.
La Corte, qui, fa intendere chiaramente che nel giudizio di costituzionalità ― o, quanto meno, in questo giudizio di costituzionalità ― vale il contrario. Il fine è predominante.
Quello che si svolge di fronte alla Corte non è un processo, ma è una procedura condizionata e finalizzata al suo scopo ultimo, la garanzia oggettiva d’un bene costituzionale importante e del principio di costituzionalità che, secondo questa prospettiva, è la ratio stessa del controllo di costituzionalità sulle leggi.
La Corte insiste su questo punto per mostrare che, al di là delle questioni formali di ammissibilità, c’è una ragione costituzionale superiore che richiede di non sottilizzare sugli aspetti processuali della vicenda. La posizione della Corte, in sintesi, sembra questa: le procedure devono servire ad aprire la strada alla sostanza costituzionale; se, per avventura, la chiudono, le si possono forzare.
Se si vogliono usare formule stereotipe che risalgono a controversie antiche tra i processualisti, si può dire che la Corte si è trovata nel bivio tra la concezione del giudizio di costituzionalità come giudizio di diritto soggettivo e di diritto oggettivo, e ha scelto quest’ultima.
Tale pare l’interpretazione che deve darsi alla duplice ed eterogenea prospettiva che troviamo nel lungo passaggio in cui è argomentata l’ammissibilità della questione >>.